Sembra, almeno, curioso che un fenomeno come il car sharing, nato una manciata di anni fa e reso possibile dallo sviluppo tecnologico e dalla diffusione degli smartphone possa essere governato e, addirittura, vietato sulla base di una legge vecchia di oltre vent’anni, scritta e pensata quando gli smartphone neppure esistevano. Ma “dura lex, sed lex” e, quindi, in attesa che Parlamento e governo intervengano come suggerito dall’Autorità di regolazione dei trasporti, non resta che attendere la nuova decisione dei giudici sebbene con il sospetto che – quale che essa sia – presente e futuro non dovrebbero mai restare affidati a regole del passato perché, per questa via, si frena inesorabilmente il progresso.
Ora, però, rimbalza, via-web, un’altra notizia che sembra ancora più difficile – è proprio il caso di scriverlo! – da digerire. Nelle scorse settimane, infatti, il Ministero dello Sviluppo economico, nel rispondere all’interpello di una Camera di commercio, ha messo nero su bianco di ritenere che per ospitare a casa propria qualcuno, dietro pagamento di un compenso servirebbe una preventiva dichiarazione di inizio attività [ndr la famosa Scia] se non addirittura – la circolare, sul punto, non è, per la verità chiarissima – un’autorizzazione del Comune e, soprattutto, essere in regola con tutti gli obblighi in materia di edilizia, sicurezza e igienico sanitari previsti per l’esercizio dell’attività di somministrazione di cibo e bevande.
Il Ministero arriva a tale disarmante conclusione interpretando la disciplina dell’attività di somministrazione di cibo e bevande attualmente vigente che – sembra fatta a posta – è esattamente coetanea di quella “responsabile” della recente chiusura di Uber Pop. Un’altra legge, vecchia di oltre vent’anni che, questa volta, metterebbe fuori legge – se l’interpretazione del Ministero dello Sviluppo economico fosse corretta – l’attività svolta dalle centinaia di migliaia di cuochi in erba e, magari, anche stellati che negli ultimi mesi hanno deciso di aprire le porte delle loro case ad amici – o futuri tali – e conoscenti, incontrati sulle pagine delle tante piattaforme di cosiddetto social eating che, da un po’ pullulano online e che, probabilmente, trovano in Gnammo il testimonial tutto italiano.
Difficile digerire l’idea che per invitare a casa mia qualcuno – sebbene attraverso un app e sebbene chiedendo un compenso – io debba indirizzare al Comune una Scia, magari, addirittura, chiedere un’autorizzazione ed aspettarmi un’ispezione dei vigili urbani o della Asl esattamente come avessi deciso di aprire un ristorante.
Una casa non è un ristorante, neppure se la uso per invitare a cena persone che ancora non conosco e decido di farmi pagare per questo. Il social eating è e resta un’attività saltuaria, non professionale e non imprenditoriale che si fa per mettersi alla prova ai fornelli, per conoscere gente o, anche, per unire l’utile al dilettevole e arrotondare lo stipendio, peraltro, pagando regolarmente le tasse sugli incassi come spiega bene Gnammo ai suoi utenti nelle “istruzioni per l’uso”.
E ora? Cosa accadrà?
Avviare un’attività per la quale la legge prevede l’invio di una dichiarazione di inizio attività o, addirittura, l’ottenimento di un’autorizzazione senza avervi provveduto o senza averla ottenuta può costare sanzioni da migliaia di euro. Gli utenti di Gnammo e delle altre piattaforme di social eating accetteranno la sfida e correranno il rischio o si precipiteranno a chiudere le loro case ed a rinunciare a mettersi alla prova dietro ai fornelli?
Difficile dirlo.
Lascia perplessi però l’idea che migliaia di cittadini italiani debbano sentirsi pirati o abusivi persino nelle loro cucine solo perché invitano qualcuno a cena senza nessuna intenzione di dare battaglia a chi ha scelto di fare il ristoratore di mestiere e, per di più, pagando regolarmente le tasse.
E’ compito di governo e Parlamento intervenire il più rapidamente possibile sul fenomeno della sharing economy individuando nuove norme che siano in grado di garantire a tutti la condivisione dei propri beni, delle proprie risorse e delle proprie abilità senza togliere nulla a chi ha scelto di fare impresa in settori limitrofi e, soprattutto, ad utenti e consumatori che hanno, evidentemente, il diritto a sentirsi sicuri quando salgono sulla macchina di un tassista o di chi offre loro un passaggio così come quando mangiano in un ristorante o a casa di chi li ha invitati attraverso un’app.
Meno burocrazia – eventualmente anche per chi vuole fare impresa per davvero – meno formalità e più attenzione a quello che conta davvero per gli utenti e per i consumatori, più libertà sui mercati, sembrano essere gli ingredienti essenziali della ricetta delle regole che servirebbero per rendere sostenibile un fenomeno con potenzialità straordinarie come quello della sharing economy.
Il ddl concorrenza, in discussione alla Camera, potrebbe essere la sede giusta per un intervento di questo genere, come ha segnalato nei giorni scorsi – parlando di Uber Pop e dell’opportunità di rendere Uber un “sostituto d’imposta” dei suoi utenti – l’On. Boccadutri (Pd).
Ma sia quella che sia la sede dell’intervento, ciò che conta davvero è far presto perché niente allontana il futuro più dell’incertezza del diritto.
Nota di trasparenza: Assisto Altroconsumo nel procedimento giudiziario che vede l’associazione a fianco a Uber. Nonostante la ricerca di obiettività, sono “tecnicamente”, di parte.