La Procura di Taranto ha disposto il sequestro senza facoltà d’uso dell’Altoforno 2 dell’Ilva, l’impianto nel quale l’8 giugno l’operaio Alessandro Morricella è stato investito da una colata di ghisa incandescente che ne ha poi causato la morte. Un provvedimento che potrebbe determinare il blocco dell’intero stabilimento siderurgico: per l’adeguamento all’autorizzazione integrata ambientale, infatti, la fabbrica produceva acciaio adoperando solo l’Afo 2 e l’Afo 4 e quindi il fermo di uno dei due impianti potrebbe di fatto fermare tutto lo stabilimento. Poco dopo l’incidente mortale, i tecnici dell’ispettorato del lavoro avevano concesso all’Ilva 60 giorni di tempo per “adottare tutti i provvedimenti necessari atti ad evitare pericolose esposizioni del personale alle proiezioni di metallo fuso durante le operazioni di colaggio dell’altoforno” e contemporaneamente il divieto di “effettuare qualsiasi operazione di prelievo diretto delle temperature ghisa nel pozzino ghisa”.
Qualcosa, a seguito dei successivi controlli, dev’essere evidentemente cambiato tanto da portare il pm Antonella De Luca, titolare del fascicolo, e il procuratore Franco Sebastio a sequestrare senza facoltà d’uso l’impianto dell’area a caldo. Una mossa che può rappresentare il colpo di grazia per lo stabilimento e i suoi lavoratori che all’indomani della morte di Morricella avevano chiaramente manifestato ai sindacati e all’azienda il timore di tornare sugli impianti. A distanza di tre anni, quindi, dal luglio 2012 quando il gip Patrizia Todisco sequestrò senza facoltà d’uso sei impianti, gli operai e i cittadini di Taranto potrebbero ritrovarsi a vivere una estate torrida.
Resta ora da capire quale sarà la mossa dei commissari: Ilva, infatti, è un’azienda in amministrazione straordinaria guidata dai commissari Pietro Gnudi, Enrico Laghi e Corrado Carrubba. E Rezi? Come interverrà il presidente del Consiglio che a fine dicembre dello scorso anno, annunciando i provvedimenti per lo stabilimento siderurgico, avevamo affermato che “l’Italia riparte da Taranto?”. A poco, quindi, è servita la cappa di impunità concessa dai Governi in questi anni: le varie leggi “Salva Ilva“, infatti, operano nel campo delle violazioni in materia ambientale mentre in questo caso la procura è intervenuta per la violazione delle norme sulla sicurezza dei lavoratori. Morriccella, infatti, è il quinto operaio che ha perso la vita in fabbrica negli ultimi tre anni dopo Angelo Iodice, Claudio Marsella, Ciro Moccia e Francesco Zaccaria. Per gli ultimi tre, in particolare, gli inquirenti sono convinti che la morte è da collegare direttamente al mancato ammodernamento della fabbrica. Nelle carte dell’inchiesta Ambiente svenduto. infatti, i pubblici ministeri hanno scritto chiaramente che “la mancata attuazione di un modello organizzativo e gestionale adeguato rispetto alla complessità aziendale (..) ha rappresentato concausa non trascurabile in relazione agli infortuni occorsi negli ultimi mesi che hanno comportato lesioni gravissime di un lavoratore ed il decesso di altri tre operatori, tutti impegnati nello svolgimento delle proprie attività lavorative, svolte in assenza di adeguate istruzioni operative e di misure tecniche atte a prevenire e ridurre i rischi per la salute e la sicurezza degli stessi”.
Poche ore fa, intanto, la corte d’appello di Milano ha confermato la condanna a sei anni e sei mesi di reclusione nei confronti di Fabio Riva, figlio dell’ex patron dell’Ilva Emilio morto qualche tempo fa, accusato di truffa ai danni dello Stato per 100 milioni di euro. Al termine del processo di secondo grado, inoltre, i giudici della quarta sezione penale hanno confermato anche le condanne di primo grado nei confronti degli altri imputati: cinque anni di reclusione per Alfredo Lomonaco, ex presidente della finanziaria elvetica Eufintrade, e tre anni ad Agostino Alberti, all’epoca dei fatti consigliere delegato di Riva Fire. Secondo l’accusa, mossa dal pubblico ministero di Milano Stefano Civardi, Riva e gli altri avrebbero creato una società in Svizzera, la “Riva Sa”, per aggirare la normativa sull’erogazione dei contributi pubblici per le imprese che esportano.
In sostanza, la normativa prevede che le aziende con commesse estere che ricevono i pagamenti in modo dilazionato nel tempo, possano ricevere stanziamenti a fondo perduto dalla Simest, società controllata dalla Cassa Depositi e Prestiti. Per Ilva, però, i pagamenti avvenivano entro i 90 giorni e quindi non avrebbe potuto ricevere contributi: secondo l’accusa confermata nei primi due gradi giudizio, quindi, Fabio Riva e gli altri imputati avrebbero costituito la Ilva Sa per ottenere commesse all’estero e poi girare i pagamenti a Ilva spa in tempi decisamente più lunghi. Uno stratagemma che avrebbe consentito al Gruppo Riva di accumulare dal 2007 un tesoretto di 100 milioni. In primo grado, il Tribunale di Milano ha anche condannato Riva Fire, holding della famiglia di industriali lombardi, al pagamento di una sanzione di 1,5 milioni di euro e il versamento, in solido tra gli imputati, di una provvisionale di 15 milioni in favore del ministero dello Sviluppo Economico che si era costituito parte civile.