Non è vero che sono inutili, addirittura nocivi: i premi servono. Nel migliore dei casi, a riportare in vita, ovvero in sala, un film di valore che quasi nessuno ha visto. 157mila persone per 906mila euro d’incasso: fa persino male scriverlo, purtroppo è un copione trito. Così fino a oggi Anime nere di Francesco Munzi, presentato in Concorso all’ultima Mostra di Venezia, accolto uniformemente bene dalla critica, compresa quella anglosassone (“Questo non è intrattenimento, è la vita e la morte”, ha scritto il New York Times), ma poco fortunato al cinema. È andata peggio a un altro ottimo film, Hungry Hearts di Saverio Costanzo, premiato al Lido con due Coppe Volpi (Alba Rohrwacher e Adam Driver): 89mila spettatori e 511mila euro al botteghino.
Di quest’ultimo la vita sul grande schermo, arene estive a parte, è finita, viceversa, Anime nere da oggi può cercare il riscatto: Good Films lo distribuisce una seconda volta, che senza le nove statuette incassate ai 59esimi David di Donatello qualche giorno fa non ci sarebbe stata. Miglior film, regia, sceneggiatura, produttore, fotografia, musicista, canzone originale, montatore, fonico di presa diretta: ha fatto incetta di premi e, se il sistema funzionasse, se il circolo virtuoso s’innestasse, dovrebbe ora fare altrettanto con gli spettatori. Vedremo, nemmeno i freschi vincitori dell’Oscar hanno una seconda vita facile al cinema, ma bisognava tentare: verrebbe da chiedersi, al contrario, perché non normalizzare la rentrée estiva – da noi tradizionalmente stagione di siccità cinematografica – degli invisibili di gusto e sostanza, quali appunto Anime nere, Hungry Hearts e via dicendo. Non è forse meglio un – peraltro pochissimo – usato sicuro che un fondo di magazzino inedito, ovvero la merce tipo dell’offerta estiva?
Quanti film, e quanto pubblico, ne gioverebbero, con un’adeguata programmazione (selezione oculata, prezzi ridotti, coinvolgimento delle categorie di settore) e, fondamentale, pubblicizzazione? Non Se Dio vuole di Edoardo Falcone, migliore opera prima ai David, che ha già fatto 4 milioni di euro d’incasso e 636mila spettatori, ma – erano candidati nella stessa categoria – chi ha visto la deliziosa commedia di formazione Banana di Andrea Jublin o l’estroversione d’artista N-Capace di Eleonora Danco? Nessuno. Dunque, perché non rimediare, perché non smettere la croce di “È andata male, stop” e credere alla resurrezione in sala? Un motivo in più, invero non ne ha bisogno, per tifare Anime nere, che dal romanzo di Gioacchino Criaco ci porta in Calabria nell’humus familiare della ‘ndrangheta: tradizione culturale e innovazione criminale cozzano, la sintesi è mortifera. Rispetto a Gomorra e i suoi derivati, Munzi non cerca la rivoluzione pop (la serie) o antropologica (il film di Garrone) del mafia movie, ma rimane ancorato alla tragedia classica, per fare un esempio, al Fratelli di Abel Ferrara.
Ha una misura stilistica e un nitore dolente che sono difficili da perseguire, ancor più in un cinema, il nostro, che blatera d’impegno civile e ciancia di spettacolo senza quid. No, queste sono davvero anime virate al nero, e Munzi sa come render loro giustizia: ha la capacità non comune di trattare la materia, ossia di maneggiare hybris e vulnus, con la normalità tragica che merita, forte di uno sguardo etnografico piuttosto che mitologico. Sullo schermo spira l’ineluttabilità del male, la mala coazione a ripetere e ripetersi radicata nelle ‘ndrine, eppure, è soprattutto una storia familiare, supportata da bravi attori: i tre fratelli Marco Leonardi, Peppino Mazzotta e Fabrizio Ferracane, Barbora Bobulova e Anna Ferruzzo. Insomma, è la vostra ultima occasione: prendere o perdere.
il Fatto Quotidiano, 18 giugno 2015