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Poi arrivano giorni in cui davvero pensi che non ha senso. Ma non per la guerra. Non perché sia pericoloso, o perché tu sia traumatizzata, o stanca, o altro. L’opposto. Perché vorrei occuparmi di Siria, di Iraq e anche di Libia, onestamente, anche di Somalia e Ucraina e Eritrea, anche di Yemen, sono qui per questo: ma larga parte di questo mestiere, invece, è un altro tipo di guerra – e perché è tutto uno scontro con le redazioni, qui, tutto un battibecco, un pettegolezzo tra giornalisti. Tutto un parlare male degli altri. Una cosa allucinante. E costante: tutto un attacco, uno sgambetto, uno sputo. Tutto un corto circuito in cui di tutto si parla, tranne di quello di cui siamo pagati per parlare. E quando il povero Espen, norvegese di Dagbladet, dopo mezz’ora in cui gli è toccato farmi più da psicoanalista che da editor, mi ha detto gentile: “Su, non pensarci più, scrivi un pezzo, ora, che così ti distrai” – aveva ragione: se fai il giornalista, scrivere è la tua distrazione.

Scrivere è quello che fai nei ritagli di tempo.

Perché per rilassarti un po’, se fai il giornalista, vai a prenderti un tè da al-Qaeda.

Vai al fronte.

E quindi sono tornata a Ramallah.

A Ramallah perché il mio Medio Oriente è iniziato qui. Per la tesi del master, un master in Diritti umani, avrei dovuto fermarmi tre mesi: mi sono fermata tre anni. E se penso a una casa, nel mondo, se penso al luogo in cui più mi è naturale sentirmi straniera, come diceva Italo Calvino, penso a Ramallah. Penso a Israele e Palestina.

E quindi sono tornata qui.

Perché quando sono a Ramallah ho la sensazione di non disperdermi in cose irrilevanti. Quando parlo con israeliani e palestinesi. Ho sempre questa sensazione di non galleggiare sulle cose. Questa sensazione di profondità. In questa relazione, questa coabitazione con l’Altro – in questo confrontarmi ogni giorno con la vita, qui, con la vita nuda, la libertà, la dignità. L’identità. Con quello che sono. Il coraggio e la paura. Questo essere chiamata a scegliere, ogni giorno, e ogni giorno avere la possibilità di essere come quella canzone degli U2Grace, e convertire, rovesciare il dolore non in odio e in rancore, in scudo, in muro e aggressione, ma in apertura verso gli altri: in comprensione. In dolcezza e bellezza. Delicatezza. She makes beauty out of ugly things… questa capacità di rispondere con la bellezza, sempre, and what left a mark, quello che ti ha ferito, che ha lasciato un segno su di te, no longer stings. Che ora non fa più male.

Grace. Si intitola così.

Ed è l’unica cosa che vorrei essere, nella vita.

Quella canzone lì.

E quindi sono tornata a Ramallah.

Solo che Ramallah, di questi tempi, è un po’ complicata. Perché sono quasi settant’anni, ormai: e i palestinesi le hanno provate tutte. Le pietre, le bombe, l’Onu – niente. E quindi per ora hanno deciso di non provarci più. Di vivere normale. Di vivere come se l’occupazione non ci fosse. Come se il mondo non ci fosse: e al traduttore che ho chiamato per un’intervista a un attivista di Raqqa, ieri, un’intervista al telefono, ho dovuto spiegare dov’è Raqqa. Soprattutto, cos’è Raqqa. Non l’aveva mai sentita nominare. Lo Stato Islamico, Assad. Niente. I sunniti e gli sciiti. Zero.

Mi ha detto: La politica non mi interessa.

Fa l’ingegnere.

E nel fine settimana, la guida turistica nei campi profughi.

Perché qui l’occupazione è parte del paesaggio, ormai. Sulla nuova cartina di Ramallah, il Muro è elencato tra le attrazioni turistiche. “Deprimente”, spiega la didascalia, “ma affascinante”.

E quindi, dal momento che sono giorni in cui come direbbe Capossela, passo da una stella cadente all’altra, ho infine deciso che era ora di finirla di starmene raggomitolata su me stessa. E ho deciso di comprare un regalo al primo sconosciuto in cui mi fossi imbattuta.

Ahmed.

Che ha 9 anni, ed è il figlio della signora che riassetta il condominio. E che invece ha quarant’anni che sembrano sessanta, e mal di denti da quando la conosco, perché non può permettersi neppure un’aspirina. E quindi ho deciso di comprare un giocattolo a suo figlio.

E di finirla di pensare solo a me stessa, ai giornalisti: ai turisti invece che ai profughi.

Solo che sono andata nel migliore negozio di Ramallah, e per un ragazzino di 9 anni non avevano praticamente niente. Era tutto per bambini più piccoli. Quattro, cinque anni. Il commesso mi ha guardato strano. 9 anni?, ha domandato, come se gli avessi chiesto un triciclo per mia nonna. Poi ho capito. Qui a 9 anni, in effetti, sei pronto per l’Intifada. E quindi in tre piani di negozio, c’erano solo due scaffali. Ma soprattutto: c’erano solo armi. Armi di tutti i tipi. Kalashnikov, lanciagranate, fucili a pompa, un razzo katiuscia, pistole, pugnali. Anche una specie di mannaia. Senta, ho detto, ma magari qualcosa tipo…non so, dei Lego. Un meccano.

Ci ha pensato su un po’ smarrito.

Poi ha detto: Certo. E ha tirato fuori un carrarmato a pedali.

A quel punto, ho ripiegato per un aggeggio telecomandato. Anche se in realtà ancora ricordo un viaggio in Libano, sud del Libano, fino a Burj el-Shemali, insieme a una chitarra elettrica dono di non ricordo più quale Ong: e nel campo profughi dove la depositai esausta non avevano elettricità – ma insomma: mi sono assicurata che funzionasse a pile: e scartati gli Humvee, gli Apaches, i missili Scud e gli F-16, ho comprato un drone.

Ahmed naturalmente era il primo regalo della sua vita, e ha saltellato entusiasta per due ore. Fino a quando si è arreso: non funzionava – o più probabilmente, essendo di fabbricazione israeliana, si è disattivato una volta caduto in mano nemiche. E quindi è andato a cambiarlo.

E’ ricomparso dopo un’ora, carico di pacchi e pacchetti. Aveva cambiato il drone con un completo da boxe – che è sempre meglio della tuta da Hamas: c’era anche quella. Sacco, guantoni e un pallone di cuoio. Ed è corso via a giocare. E il resto che ha scelto?, ho chiesto alla madre. Pensando: un arsenale che mi terrà accuratamente nascosto. E invece, dei 40 dollari del drone, aveva usato un terzo per sé, per sacco guantoni e pallone, e con i restanti due terzi, aveva comprato giocattoli agli altri suoi amici. Ed era il primo regalo della sua vita.

In una famiglia in cui non hanno neppure l’aspirina.

Stamattina è arrivato con un cilindro di metallo raccolto davanti casa, una cartuccia di gas lacrimogeno. Con un fiore dentro.

Mi ha detto: Bentornata a Ramallah.

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