Il chitarrista dei Subsonica parla di Specchio, l'ultimo singolo della band torinese, del tour appena cominciato e del rapporto strettissimo costruito con i fan negli ultimi diciotto anni: "Ai nostri concerti già vediamo padri e figli insieme".
Max Casacci non è solo il fondatore e il chitarrista dei Subsonica. Per gli appassionati di musica è anche uno dei produttori più stimati del panorama discografico italiano, un artista dalle mille sfaccettature che nella sua carriera ha spaziato dalla Biennale di Venezia al Festival di Sanremo, senza preoccuparsi delle presunte contraddizioni: “Credo molto nella necessità di mescolare la cultura popolare con l’avanguardia, perché altrimenti non è vera cultura popolare, non è specchio dei tempi. Anche una semplice canzone può ambire a diventare un’opera d’arte”.
Specchio, l’ultimo singolo dei Subsonica, parla di un tema molto importante e delicato: l’anoressia e i disturbi alimentari in generale. Come mai avete deciso di affrontare questo argomento?
Stavo inquadrando il personaggio di questa canzone, che è anche un po’ allegra, ubriacona, sghemba, tutto sommato solare. Stava prendendo forma una di quelle figure classiche degli anni Zero: chi vive un’adolescenza innaturale, si mette di fronte allo specchio e si rende conto di certe incongruenze e di certe lacune esistenziali. Era iniziata un po’ così. Poi, digitando le parole chiave di questo pezzo su un motore di ricerca, con Samuel ci siamo trovati di fronte a un blog sull’anoressia, che si chiama “Amiche di Bia”, con testimonianze molto toccanti e ci siamo resi conto che il nostro personaggio parlava anche di quello. L’argomento è delicato, complesso e abbastanza scivoloso, al punto che io ho pensato di fare retromarcia. Tuttavia, in quel periodo una delle persone a noi più care (che peraltro ha curato la copertina del disco) aveva un problema di quel tipo molto grave in famiglia. E per casualità altre persone che conoscevamo si erano trovate di fronte a vicende simili. Ci siamo resi conto che una delle cose più drammatiche relative a questo fenomeno è la sensazione di impotenza totale. È un disagio foderato da un tabù impenetrabile. Ci siamo fatti forza, abbiamo chiesto la consulenza di esperti che operano nel campo e abbiamo deciso di affrontarlo. Poi abbiamo chiesto a Luca Pastore, che già aveva firmato il video di Disco Labirinto per persone sorde, di realizzare il video. Non volevamo essere troppo didascalici. Il nostro ruolo non è quello di insegnare qualcosa a qualcuno. Il compito degli artisti è gettare un sasso nello stagno. E noi abbiamo fatto questo.
Da qualche giorno è partito il vostro tour. La dimensione live ha sempre avuto un’importanza molto forte nell’esperienza dei Subsonica. Quanto conta stare a stretto contatto con il vostro pubblico? Conta più di un’ospitata in tv?
Non disdegniamo il rapporto con i grossi media, anche perché sappiamo in che mondo e in che epoca viviamo. Tuttavia, a distanza di 18 anni, ci rendiamo di quanto sia stato importante creare un rapporto solido, quasi ombelicale, con il nostro pubblico, attraverso i concerti o il controllo del prezzo dei biglietti. E poi abbiamo un rapporto quotidiano e costante. Già nel 1999, avevamo un blog quando ancora non si usava la parola blog. Ormai esiste un codice, un patto narrativo che include anche una sorta di humour condiviso. E poi, avendo il live come stella polare, in questo momento di cambiamenti radicali nella musica, siamo avvantaggi. Siamo una delle poche realtà che dal vivo continuano ad avere una bella resa, anche in termini di numeri. Stiamo cominciando ad accogliere ai nostri concerti ragazzi nati quando cominciavamo a suonare.
Sta per scattare la seconda generazione di fan dei Subsonica?
Sì, abbiamo già visto padri e figli insieme ai nostri concerti.
Oltre che musicista e fondatore dei Subsonica, sei anche uno dei produttori più stimati del panorama musicale italiano. Come è cambiato il modo di produrre un disco dai tuoi esordi a oggi?
Sono cambiate innanzitutto le tecnologie. Io taglio ancora i nastri con le forbici, ma scelgo se usare analogico e digitale in base all’artista con cui lavoro. In realtà quello che non cambia, al di là della tecnologia usata, è l’impatto emotivo di quello che stai facendo. Bisogna astrarsi e tenere in considerazione chi ascolterà quella canzone.
Nel corso della tua carriera hai spaziato in campi anche poco convenzionali o diversi tra loro: dalla Biennale di Venezia a Sanremo, passando per Planetario. Hai fatto tutto: è una continua ricerca musicale?
La mia è voglia di ascoltare musica. Non mi nego lo stupore, anche di fronte alla musica che in questo momento viene fatta da chi ha la metà dei miei anni. E visto che continuo ad ascoltare musica, automaticamente viene voglia di tentare nuovi esperimenti. Io credo molto nella necessità di mescolare la cultura popolare con l’avanguardia, perché altrimenti non è vera cultura popolare, non è specchio dei tempi. Credo molto nel fatto che una semplice canzone possa ambire a diventare un’opera d’arte. Non ci si deve assolutamente frenare e soprattutto è sbagliato pensare che l’artista debba essere condizionato dal pubblico. Spesso è proprio il pubblico a chiedere di essere condotto per mano.
A proposito di assecondare i gusti del pubblico: siamo nell’epoca dei talent show. Che pensi di questo fenomeno?
Innanzitutto mi sono stufato delle letture ideologiche applicate alla musica perché in passato hanno creato disastri. Ma tendenzialmente a me non piace la televisione e credo ci sia un equivoco di base nella lettura del fenomeno: non sono un fenomeno musicale ma televisivo, con la narrazione tipica della tv.
Il fatto che i ragazzi vendono ai propri coetanei non è una novità. Oggi sono quelli dei talent, prima era chi faceva hip hop. Un quindicenne è più attratto dalla voce di uno che ha la sua stessa età, che tratta temi che per gli altri sono già sentiti mille volte, ma per lui sono nuovi. Detto questo, la musica è una cosa, la televisione è un’altra. Non bisognerebbe confondere i due aspetti.
Fino agli anni Novanta sui media c’era più spazio per tante altre cose, oggi quello spazio è molto ristretto. Nell’arco di quattro mesi, 60-70 canzoni monopolizzano lo spazio su tv e radio, e questo è un problema perché la produzione musicale in Italia è più ampia, perché ci sono nuove etichette indipendenti, perché c’è chi ci crede e non si è arreso. Bisognerebbe diversificare gli spazi.
La musica è praticamente scomparsa dalla scuola italiana. Quale approccio bisognerebbe usare sotto questo punto di vista?
Bisognerebbe far giocare i ragazzi con la musica. La musica è un fluidificante pazzesco di tutto il resto. A livello artistico, scientifico, imprenditoriale: è una risorsa da tenere in considerazione. Con la musica si possono sperimentare aspetti ludici. Qualche giorno fa sul nostro Facebook abbiamo postato la versione in latino di un nostro singolo di qualche anno fa, “La Glaciazione”. Come mai esiste una versione in latino di una nostra canzone? Perché un professore di latino di Verona l’ha fatta tradurre ai suoi studenti. Poi ha creato una base e l’ha cantata in latino, con gli studenti che fanno il ritornello in coro tipo The Wall. Ecco, la musica permette questo genere di cose.