Il controllo sugli strumenti di lavoro? In Europa c’è, non in tutti i Paesi, ma in buona parte. Ma al tempo stesso, le cause legali connesse a problemi di privacy sul posto di lavoro sono in aumento. Questo è lo scenario che si prospetta anche per l’Italia, ora che il Jobs act ha previsto la possibilità, per l’azienda, di controllare gli strumenti elettronici del dipendente anche senza accordo sindacale. E mentre gli esperti italiani si interrogano sui risvolti pratici della norma, basta dare uno sguardo in Europa per capire in quale direzione stiamo andando.
A tracciare un quadro della situazione è il lussemburghese Guy Castegnaro, presidente di Eela, Associazione europea degli avvocati del lavoro. “Nella maggior parte dei Paesi europei, un controllo è possibile, ma a diverse condizioni – spiega il giuslavorista a IlFattoQuotidiano.it – innanzitutto, i datori di lavoro non possono accedere a informazioni nella corrispondenza privata“. E questa condizione, va precisato, si applica anche nel caso della mail assegnata dall’impresa. “Anche se l’indirizzo di posta elettronica è aziendale – sottolinea Castegnaro – quando il messaggio è segnalato come confidenziale, il datore deve rispettare il principio della vita privata anche sul posto di lavoro. Alcuni Paesi non lo riconoscono, ma la maggior parte sì”. Il rovescio della medaglia, nello sdoganamento dei controlli a distanza, è il numero crescente di battaglie in tribunale. “A livello europeo, ci sono sempre più casi di contenzioso legati alla privacy sul posto di lavoro – prosegue l’avvocato – l’imprenditore vuole usare comunicazioni private e controllare i siti visitati per usarli come prove nei contenziosi con il lavoratore. La domanda è: sono legali queste prove? E possono essere usate in un processo?”.
Questa situazione si ritrova, per esempio, in Spagna. “I controlli si possono fare, ma entro certi limiti – spiega a IlFattoQuotidiano.it Raquel Flórez, avvocato del lavoro – la nostra legislazione non è ancora molto sviluppata sul tema. E la questione genera molte controversie legali”. Il terreno di scontro, riporta la giuslavorista, sono i licenziamenti disciplinari: il datore di lavoro utilizza i dati raccolti attraverso i controlli per dimostrare le inadempienze del dipendente. “Ma spesso i lavoratori ritengono illegale la forma con cui l’azienda ha ottenuto certe informazioni sul proprio conto”, prosegue Flórez. Come previsto anche nel Jobs act, ci deve essere una policy aziendale che avverta il dipendente. “Ma questo non significa che il datore possa fare il controllo ogni giorno – precisa l’avvocato – per procedere a una verifica, bisogna avere una determinata ragione. Per esempio, ci può essere un controllo a campione oppure ci deve essere un problema pregresso”.
In Germania, invece, lo scenario è diverso. Qui, nelle aziende si possono trovare i consigli di fabbrica, organismi eletti dai lavoratori che negoziano con la proprietà le condizioni di lavoro dei dipendenti. “Quando c’è un consiglio di fabbrica, il controllo è soggetto a codeterminazione – spiega Gerald Wiedebusch, avvocato del lavoro – il consiglio ha diritto di dire ‘no, dobbiamo negoziare'”. Diverso, invece, è il caso delle aziende non sindacalizzate, dove non si trova questo organismo. “In questo caso, se computer e telefoni sono dati ai dipendenti senza il permesso di usarli per fini privati, allora l’azienda può controllare ogni informazione – prosegue il giuslavorista – se invece il datore autorizza l’utilizzo anche per comunicazioni personali, allora non può accedere ai dati del dipendente. Anche se la policy aziendale permette un uso limitato per fini privati. In questo caso, il controllo è un reato, è molto pericoloso”.