Per quanto brillante e spiritoso, nonostante il ritmo sostenuto e il tono allegro, La musa di Jonathan Galassi (traduzione di Silvia Pareschi, Guanda) è un romanzo molto malinconico, che racconta la fine di un mondo, più precisamente quello della grande editoria indipendente. Nessuno meglio di Galassi, presidente e editore di Farrar Straus & Giroux, poeta e traduttore di Leopardi e Montale, poteva lasciarci un affresco più preciso di un certo ambiente, destinato a scomparire. Quando i libri non erano ancora contenuti interscambiabili in mano ai colossi del digitale, come Amazon, ma oggetti d’amore, spesso inafferrabili quanto i loro autori. Quando essere editori significava seguire una vocazione, entrare in un piccolo clan con le sue leggi e le sue nevrosi, i suoi canoni di eleganza e i suoi riti, in fondo così vitali.
Le pagine sulla Fiera di Francoforte sono esilaranti. La corsa ad accaparrarsi il premio Nobel, per esempio, quando la casa editrice del vincitore sembra «lo sportello di una compagnia aerea dopo la cancellazione di un volo». O i contratti chiusi alla cieca, intontiti dall’alcol, dopo «una notte passata a lamentarsi, mentire, adulare, fumare e bere, ingozzarsi e raccontare balle e bere e scopare e divertirsi un mondo», contratti di cui naturalmente pentirsi il mattino dopo. «La verità era che ciò che andava forte a New York spesso arrivava morto a Reykjavik, e viceversa… A volte Paul desiderava che esistesse una pillola del giorno dopo per Francoforte; ma un accordo era un accordo, anche se era stato concluso quando una delle due parti era ubriaca fradicia, o magari entrambe». E qualunque editore può confermare quanta verità contengono battute come «Il romanzo è eccezionale, ora riscrivilo».
Paul Duckach vive proprio questa stagione: è l’erede dell’ultimo degli editori indipendenti di New York, Homer Stern, da sempre in competizione con Sterling Wainwright, il suo unico vero concorrente, almeno in fatto di eleganza letteraria. A incarnare la bellezza di questa battaglia è un’autrice che i due si contendono fino alla fine, Ida Perkins, una poetessa immaginaria di cui Galassi ricostruisce la vita e l’opera (e persino la bibliografia). La partita si gioca fra Union Square e il Canal Grande, con Paul al centro. Ma non si risolve in un manoscritto inedito consegnato da Ida come un testamento, perché sta cambiando il mondo che tutti loro hanno intorno. E se questi personaggi potevano permettersi battute come «il mondo dell’editoria sarebbe bellissimo senza tutti quei maledetti autori» era perché gli autori erano ancora centrali, «gli uomini erano uomini, le donne erano donne, i libri erano libri», insomma aveva ancora valore la letteratura, che è fatta di persone e del loro «smodato desiderio di esprimersi».