Lo Statuto dei lavoratori, in sostanza, oggi vieta al datore di lavoro di controllare, intenzionalmente, a distanza, i lavoratori ma ammette, sebbene con talune cautele, forme di controllo c.d. “preterintenzionale” ovvero rese possibile dall’installazione, previo accordo sindacale, di impianti ed apparecchiature che pur rispondendo ad una diversa finalità, consentano anche forme più o meno penetranti di controllo.
Per l’installazione di tali impianti e dispositivi, le nuove regole del Jobs Act, cambiano poco o nulla.
Servirà, infatti, sempre l’accordo sindacale per la loro installazione che risulterà comunque possibile “esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale”.
Diverso, invece, è il discorso sul versante della possibilità per i datori di lavori di mettere a disposizione dei lavoratori smartphone, tablet e PC “per rendere la prestazione lavorativa”.
Oggi, infatti, lo Statuto dei lavoratori non prevede alcunché al riguardo con la conseguenza che talvolta si è ritenuto necessario procedere ad un accordo con i sindacati, talaltra si sono consegnati telefonini o pc aziendali al dipendente, senza alcuna formalità.
Al riguardo, il governo propone di sottrarre, in modo esplicito, la messa a disposizione del lavoratore di tali strumenti da parte del datore di lavoro, all’esigenza di un preventivo accordo con i sindacati.
E’ questa la disposizione che ha fatto – più di ogni altra – ipotizzare che il governo fosse intenzionato ad aprire la strada a forme di controllo di massa dei lavoratori.
La previsione, in realtà, è di per sé inoffensiva e non fa che normare una situazione di fatto diffusa e non illegale giacché, sin qui, si sta semplicemente ipotizzando di semplificare la fornitura ai dipendenti di strumenti di comunicazione elettronica che sono, ormai, entrati a far parte del quotidiano di ciascuno a casa come sul lavoro.
Ma, sfortunatamente, tale previsione è seguita – nella proposta del governo – da un’ulteriore disposizione, che sembra proprio pensata male e scritta peggio.
Eccola: “Le informazioni raccolte ai sensi del primo e del secondo comma sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196.”.
Il punto è che le disposizioni che la precedono – ovvero quelle del primo e del secondo comma – non stabiliscono alcunché in relazione alle “informazioni raccolte” dal datore di lavoro, limitandosi a consentire a quest’ultimo di installare taluni dispositivi e di consegnarne talaltri ai lavoratori.
A quali informazioni, dunque, fa riferimento il governo? A tutte quelle raccolte attraverso gli apparecchi e dispositivi installati in azienda e forniti ai lavoratori? Se fosse così sarebbe difficile resistere alla tentazione di unirsi al coro di quanti accusano il governo di spianare la strada a scenari da Grande Fratello.
Mentre, infatti, con riferimento agli apparecchi e dispositivi eventualmente installati in azienda, la proposta del governo, stabilisce inequivocabilmente che essi possono essere impiegati “esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale” e, dunque, sembra limitare la raccolta di informazioni a quelle, eventualmente utili anche al controllo dei lavoratori, che dovessero finire nella rete del datore di lavoro solo in modo “preterintenzionale”, con riferimento a smartphone, tablet e pc, una simile limitazione manca del tutto, con la conseguenza che la nuova disciplina abiliterebbe il datore di lavoro a far man bassa di tutte le informazioni comunque in transito per i dispositivi forniti al lavoratore anche per finalità direttamente di controllo.
Al riguardo, peraltro, c’è da tener presente che il governo sta proponendo di eliminare l’attuale primo comma dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori che, oggi, vieta “l’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori”.
Caduto il divieto generale, i datori di lavoro – in assenza di qualsivoglia nuova norma che ne perimetri la potestà di controllo – tornerebbero tecnicamente liberi di controllare a distanza i lavoratori. E sul punto è inutile appellarsi al Codice privacy giacché, le norme che riguardano la tutela dei dati personali e della riservatezza nel rapporto di lavoro, sfortunatamente, si limitano a richiamare – senza neppure riprodurne il testo – l’art. 4 dello Statuto dei lavoratori ovvero esattamente la norma che il governo vorrebbe riformulare integralmente.
Difficile leggere diversamente le norme contenute nella proposta di Palazzo Chigi.
Se, dunque, Palazzo Chigi non ha davvero intenzione di legittimare forme di controllo massiccio dei lavoratori è urgente che metta mano alle norme appena presentate al Parlamento, riformulandole, reintroducendo il divieto di ogni forma di controllo a distanza dei lavoratori e perimetrando il diritto del datore di lavoro all’uso delle informazioni raccolte attraverso smartphone, tablet e pc alle sole informazioni delle quali venga in possesso in modo preteritenzionale.
In difetto non ci sarà comunicato o dichiarazione ufficiale che valga a scongiurare il rischio – che questa fosse o meno l’intenzione del governo – che un datore di lavoro installi, del tutto legittimamente, sullo smartphone di un suo dipendente un’app che gli consenta di controllare se, quanto e come lavora e, eventualmente, anche di licenziarlo sulla base delle informazioni raccolte.
Certo, per farlo, dovrà prima informare il lavoratore e magari anche ottenere il suo consenso, ma, se si ha il coraggio di mettere da parte ogni forma di ipocrisia, occorre riconoscere che questo genere di cautele formali, in un rapporto di lavoro, valgono davvero poco e, comunque, certamente, molto meno di un divieto esplicito di ogni forma di controllo a distanza.