Si guardano da lontano e restano fermi nei loro quartieri. A quindici anni dalla guerra in Kosovo, la popolazione di etnia serba e quella albanese continuano a vivere in un regime di tregua perenne. Le città dove resistono le piccole comunità di serbi sono tagliate da confini interni; a Mitrovica, nel nord del Paese, le barricate sono piantonate dalle camionette dei carabinieri italiani. Serbi e albanesi sono separati alla nascita. Chi ricorda con nostalgia l’unità con Belgrado è oggi una minoranza del 5% che vive in enclave malmesse e prega nelle chiese ortodosse; la schiacciante maggioranza albanese ha fatto dei suoi quartieri dei fortini più europei e occidentali, nonostante le belle moschee (leggi). In Kosovo, anni di controllo militare non sono bastati a fare del più giovane Stato d’Europa un posto pacifico. “Abbiamo avuto tante volte i serbi nel mirino – ricorda Nexhmi Lajçi, ex comandante dell’Esercito di Liberazione del Kosovo (Uck) – ma non abbiamo sparato per paura di ritorsioni contro la popolazione. Li ho visti strappare i denti di bocca ai bambini. Se ci ripenso, mi viene voglia di andare là e ucciderli tutti”. Anche la minoranza serba, nonostante stia cercando di integrarsi nel nuovo Stato dei Balcani, ricorda le sofferenze della guerra, facendo riaffiorare sentimenti di odio per le tragedie vissute. “Ci avete attaccato voi della Nato – dice Miodrag Dašić, rappresentante dell’enclave di Brestovik ed ex comandante dell’esercito serbo di Slobodan Milošević – e abbiamo regalato il Kosovo agli albanesi. Una volta, un generale mi chiese cosa accadrà quando la Nato lascerà il Kosovo. Io gli ho risposto che l’esercito della Serbia ritornerà qui, subito” di Michele Chicco e Gianni Rosini
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