Il 23 maggio scorso sono stato invitato a raccontare l’esperienza Social street alla TedxPisa. Quando mi hanno chiamato ed ho visto che i relatori invitati erano del calibro di Pepe Mujica (ex presidente Uruguay), Thomas Piketty, Nadia Urbinati e molti altri, mi sono chiesto perché mi avessero invitato. Il tema scelto era la diseguaglianza. Molti degli interventi hanno dipinto scenari poco incoraggianti per il futuro, una società in cui i divari socio economici aumenteranno, ma sono state presentate anche storie di speranza, come quella di Daniele Trinchero, ingegnere, che è riuscito a portare la banda larga nei posti più sperduti del mondo garantendo l’accesso alla rete anche a chi ha poche risorse in un’ottica di uguaglianza. Il mio intervento è stato l’ultimo e sentivo di avere un po’ la ‘responsabilità’ di dare un messaggio di speranza. In effetti le storie provenienti dalle Social street sono contagiose, dimostrano che partendo dal piccolo, con molta pazienza e dedizione, si possono ottenere risultati importanti in ambito sociale. Ho avuto diciotto minuti a disposizione, secondo il format internazionale del Ted, per raccontare i quasi due anni di storia di Social street e non è stato facile.
Nel messaggio ho voluto sottolineare la particolarità di Social street che non vuole andare a duplicare le bellissime realtà che già esistono in ambito tecnologico, urbano, sociale, di sharing o altro. Volevo semplicemente ribadire l’importanza della semplicità del concetto di Social street ovvero la socialità disinteressata, il tornare a salutarsi, sentirsi parte della strada dove si vive.
Leggo molte cose sulla stampa riguardo social street, che nascono per rigenerare beni comuni, rigenerazione urbana…L’unica rigenerazione a cui pensavo quando ho inziato la social street era la rigenerazione dei legami sociali. Avrei voluto concludere il mio intervento con una storia che mi ha colpito e che rappresenta bene l’essenza del Social street. Non avendo avuto tempo durante la conferenza Ted, colgo l’occasione di questo spazio.
Circa un mese fa in via Fondazza a Bologna, il negozio di tappeti pakistano di Masoud, è stato vittima di un attentato: durante la notte una bomba carta ha distrutto la vetrina del suo negozio. Al mattino nel gruppo facebook Residenti Via Fondazza Social street, sono state postate delle fotografie e subito è scaturita l’indignazione mista a rabbia. In qualità di amministratori del gruppo non siamo intervenuti. Come i sociologi sanno bene, aggregare sulla base dell’emotività è molto facile ma spesso anche rischioso e deleterio. E’ stato bello vedere come dopo poche ore,
Ecco, mi sono rimaste impresse le parole di Masoud “avevo bisogno di sentirmi parte della strada e grazie a Social street ed ai vicini adesso vivo meglio in questa strada. Quei volti che vedevo tutti giorni passare davanti al mio negozio, adesso hanno un nome per me”. Ho voluto raccontare questa storia per ribadire che a volte basta veramente poco per vivere meglio nel posto dove si abita, per cambiare la percezione del posto dove si vive, non servono investimenti monetari o chissà cosa, serve sviluppare quotidianamente le relazioni fra i vicini. Quando ogni persona che vive in una social street potrà dire la stessa frase di Masoud allora potremmo dire, missione compiuta.