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Il Ttip, il potere di veto e la questione democratica

In un articolo pubblicato alcuni mesi fa sul Washington Post l’editorialista americano Harold Meyerson osservava che uno dei più grandi paradossi politici degli ultimi venticinque anni è il modo in cui i governi di centrosinistra dei Paesi industrializzati hanno supportato e continuano a supportare a livello internazionale quelle stesse politiche commerciali, lesive degli standard di protezione dell’ambiente e del lavoro, che invece osteggiano in ambito nazionale. Se oggi Mayerson riscrivesse il suo vecchio articolo dopo avere avuto modo di soppesare i due schieramenti che si sono creati nel Parlamento europeo in merito alla negoziazione del Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (il Ttip) sarebbe forse stupito dalle dimensioni che la contraddizione politica da lui individuata ha assunto all’interno del gruppo socialista europeo.

Il Ttip ha ricevuto critiche su molti fronti. L’abolizione delle barriere non tariffarie implicherebbe un livellamento degli standard di sicurezza alimentare ed ambientale tra Ue e Stati Uniti che risulterebbe in un compromesso al ribasso per l’Europa. L’introduzione dell’arbitrato internazionale Stato-imprese (il famoso ISDS) fornirebbe alle multinazionali la possibilità di citare in giudizio i governi che adottano politiche pubbliche, per esempio di tipo ambientale, che rischiano di ridimensionare i profitti stimati all’inizio dell’investimento. E ciò porrebbe un problema di doppia natura, democratica ed ecologica. Poi ci sono tante altre questioni correlate, dalla salvaguardia del servizio sanitario pubblico europeo fino al rischio delocalizzazione.

Il paradosso dei partiti europei ecologisti e social-democratici che appoggiano con vigore un Trattato che va nella direzione di una globalizzazione incontrollata si pone anche sull’altra sponda dell’Atlantico. Alcuni giorni fa Foreign Policy aveva pubblicato un articolo di Bruce Stokes titolando: “Quand’è che i Democratici sono diventati i sostenitori americani del libero commercio?”.

Il problema è che in ambito internazionale le divisioni politiche si smaterializzano per lasciare posto ad una visione unica di stampo neo-liberista, che gli anglofoni riassumono in un acronimo di quattro lettere, TINA (there is no alternative). I critici del Ttip, o almeno molti di loro, credono che il prevelare di questo unilateralismo teorico sia il risultato di un azzoppamento democratico. I tecnici fanno quello che vogliono perché ai cittadini non è concessa la possibilità di decidere. L’accusa di antidemocraticità del Ttip è proprio questa. Negoziazioni condotte in segreto senza che le persone coinvolte possano dire la loro.

In realtà non è così, o almeno non esattamente così. La Commissione europea sta negoziando in segreto, è vero, ma soltanto perché il Parlamento europeo gli ha dato il mandato per farlo. Non appena il testo sarà completo dovrà essere sottoposto al voto parlamentare. In quell’occasione si potrà dire di no. Grazie per l’interessamento e per il duro lavoro, ma no, davvero, non ci interessa, e poi se dobbiamo dirla tutta questa storia della negoziazione segreta non ci è andata proprio giù, quindi no, sarà per la prossima.

Il Ttip non viola le regole democratiche. Piuttosto lucra sulla pigrizia democratica. Il meccanismo della democrazia rappresentativa, seppur preservato nella sua integrità formale, si incepperà perché l’oggetto della discussione è troppo complesso per creare quelle polarizzazione che compaiono solitamente nel più ristretto ambito nazionale. Per il fronte del no, cui spetta l’onere di innescare una mobilitazione politica, il compito è arduo.

Comprendere il contenuto e le conseguenze del Ttip al punto da indignarsi e fare pressione sui propri rappresentanti perché non lo votino, minacciando di revocare il proprio supporto elettorale e porre fine alla loro carriera politica, richiede uno sforzo notevole. Consultare varie fonti, informarsi sulla normativa vigente sia in Europa che negli Stati Uniti in ambito ambientale, alimentare, energetico, etc., confrontare le stime sui vantaggi economici che un libero mercato di 820 milioni di persone creerebbe sulle due sponde dell’Atlantico e poi valutare questi dati alla luce di eventuali perdite sul fronte della sicurezza, e così via.

Il dogmatismo tecnocratico, nella maggior parte dei casi, non si oppone apertamente alle procedure democratiche. Semplicemente si insinua negli spazi che le democrazie nazionali lasciano sguarniti. E a mano a mano che l’economia e la politica assumono dimensioni globali la difesa di questi spazi da parte dei cittadini diventa sempre più faticosa e difficile.