E’ un periodaccio.
Di quelli dove cerchi gli occhiali e ce li hai in testa, perdi il bambino e ce l’hai in braccio, ti guardi allo specchio e ti accorgi di assomigliare a Conchita Wurst.
Siamo in alta stagione e io sono in giro con clienti stranieri in questo angolo di paradiso ligure che sono le Cinque Terre. Rilassati e spensierati, scorrazzano per l’Europa bevendo vino, consultando guide, ingrassando a suon di carboidrati tricolore. Sono coppie o gruppi di amici che se la spassano un mondo e se hanno figli, non di rado li lasciano a casa con qualcuno.
Esco, saluto la family e in breve tempo mi incontro con i turisti del giorno. Se va bene, a fine giornata avrò mezz’ora nella quale dedicarmi solo a me stessa, senza essere interrotta perché qualcuno: a) ha rubato un gioco a un altro, b) ha fame, c) ha fatto la cacca, d) ha allagato il bagno, e) si è fatto male e urla come un’aquila.
Trenta minuti non sono molti. A volte mancano pure quelli.
E’ un periodaccio.
Di quelli dove più che un essere umano mi sento uno sherpa abbarbicato alla parete nord dell’Everest, senza bombola e alla disperata ricerca di restare viva. Di sopravvivere a culetti sporchi, richieste da soddisfare, stomaci da riempire, vestiti da lavare, risse da sedare, giochi da inventare, faccende da sbrigare, email da inviare.
E’ più o meno tra un urlo da soprano e un pannolino in mano, più Miss Doubtfire che Bridget Jones, che ho una rivelazione. Di quelle che ti lasciano prima fulminata e poi angosciata. La mia vita fa schifo!
La gente con cui passo le mie giornate lavorative cavalca i propri desideri, danza al passo dei propri ritmi, asseconda le proprie pause, decide quando andare o quando restare, è padrona della propria esistenza.
Io e Miss Indipendenza siamo due intime amiche che non si vedono da parecchio tempo.
Non si tratta tanto della mia vita in senso esistenziale, quel che appesantisce è la routine di certi giorni su altri. Quella quotidianità monopolizzata di diritto da tre piccole personcine, che non hanno chiesto di venire al mondo e che ora manovrano il mio.
Dopo l’illuminazione, oltre all’impotenza di essere costantemente risucchiata dentro un vortice e risputata intera più o meno verso le nove di sera, mi sono sentita un essere inetto.
Perché i figli so’ pezzi e’ core e guai lamentarsene, pena il rinvio a giudizio al tribunale dei minori.
Ragionandoci su, tra un treno per Manarola e uno da Riomaggiore, ho però realizzato che l’amore non centra proprio un bel nulla.
E’ solo la fotografia di una particolare fase della vita, che rispetto a quanto in molti pensano e pochi dicono, annovera momenti non proprio esaltanti di autentico sfinimento fisico.
Felicità è (anche) silenzio, indolenza, egoismo. E’ alzarsi alle dieci, mangiare una scatoletta di tonno, e fare la spola dal divano al letto, dal letto al divano; ma essere genitori è un contratto a chiamata che non contempla giorni di riposo, né festività.
Perché si fanno i figli?
E’ un po’ come rispondere a cosa sia l’amore. Ognuno ha una risposta diversa, legittima, dove tutto è il contrario di tutto.
I figli – su larga scala – ti salvano da te stesso e dal narcisismo autoreferenziale, obbligandoti a rinunciare al senso di onnipotenza che si aveva prima di loro. Sono l’unico miracolo che l’uomo sia riuscito a creare e il suo onere più grande.
E va bene così.
Trovando il coraggio di confessarselo, mugugnando di tanto in tanto, la luce alla fine del tunnel diventa via via più grande.
E ad entrarci a piè pari, in quel tunnel, da qualche altra parte del mondo, tocca a qualcun’altra.
Nell’esatto momento in cui fissa inebetita due lineette sottili che via via appaiono sempre più nitide.