L’ennesimo suicidio di un imprenditore in difficoltà, in particolare il caso di ieri di Egidio Maschio, co-fondatore e Presidente di un gruppo industriale per la produzione di attrezzature agricole che dà da lavoro a 2.000 persone, ci obbliga a tornare su un tema che avrei preferito evitare come la peste, perché delle morti non si dovrebbe parlare ma restare in rispettoso silenzio. Ma non è dell’atto autolesionistico in sé che vorrei discutere, anche se il fenomeno è talmente diffuso – 402 casi tra il 2012 e metà 2014 – da imporre una riflessione generale. Infatti al di là di ogni difficile considerazione giusta e legittima che però tende a polverizzare le responsabilità quello che ci interessa dire è che c’è qualcosa di patologico nel fenomeno, che ci sono fattori che più di altri contribuiscono a determinare questa inaccettabile mattanza.
Dicono che la Maschio Gaspardo fosse oberata dai debiti e che le banche avessero chiesto il rientro. Non conta. Il problema è che oggi se si è un imprenditore, senza pretendere di assomigliare ai grandi campioni, ci si deve misurare con una situazione disgustosa. Colleghi che scappano con la cassa e licenziano gli operai; falliti nei fatti che per i tribunali non falliranno mai, aziende sane che vengono portate al lastrico. Scelte commerciali scorrette. Banche che finanziano il non finanziabile, strangolano i deboli e non restituiscono il denaro ai propri azionisti, come sta accadendo proprio in questi giorni nel Nord est. Fornitori che non pagano, altri che vorrebbero pagare e non possono, giustizia e burocrazia asfissiante. Politica che si intromette solo per prendere, raramente per capire e, se possibile, sostenere le imprese. Insomma altro che mercato, il mondo delle imprese in Italia oggi è l’antimercato, l’assenza delle regole e del merito, il caos e la giungla totale, dove chi per sbaglio vuole rispettare le regole o peggio, ha delle regole all’interno della sua coscienza che gli impediscono di adeguarsi all’andazzo generale, è destinato a soccombere prima o poi, in gradi differenti, Non basta essere dei duri (e molti imprenditori lo sono), bisogna essere dei banditi.
È questo sistema che carica, arma e esplode la pistola degli imprenditori che si suicidano, non i debiti, le difficoltà, gli errori che sono il pane quotidiano di un imprenditore. È l’impossibilità di uscire dai problemi se non facendo violenza a sé stessi. A quel punto l’unica soluzione è andarsene, lasciare ad altri, forse più adatti a misurarsi con queste ‘leggi’, il problema della sopravvivenza. Chi è cresciuto e ha sviluppato un certo modo di fare impresa, può far tutto ma non negare sé stesso, la propria ragione di vita. Così la violenza ha il sopravvento finalmente e assume la forma autodistruttiva del suicidio.
Ovviamente a qualcuno dovrebbero fischiare le orecchie. Ogni volta che siamo costretti a leggere di un suicidio suona la campana per molte persone. Prima di tutto per il governo e la classe politica che – anziché perdersi in ciance – farebbe bene a mettere seriamente mano alla struttura del mercato in Italia, imponendo poche regole ma chiare e soprattutto adoperandosi affinché il merito, il lavoro, l’impegno siano riconosciuti e rispettati, non solo gli interessi degli amichetti. Magari anche con leggi più serie a disciplina del settore bancario, di quelle varate recentemente. Poi le associazioni dei produttori e i sindacati che saltano sui tavoli solo quando qualche loro interesse di parte viene intaccato e mai si sognano di ostacolare il malaffare quotidiano di cui sono muti spettatori.
Così mi vengono in mente i drammatici momenti dei funerali della scorta di Falcone, quando a tutti parve evidente che quei morti non erano la conseguenza delle bombe, ma di una totale assenza dello Stato nel difendere la giustizia e i più deboli. Questa è l’aria che si respirerà anche quando in molti, ipocritamente, andranno a piangere alle esequie dell’ennesimo imprenditore che ci ha lasciati.