Musica

Michael Jackson, sei anni fa il mondo del pop ha perso il suo Re

Che le casse di tutti gli stereo del mondo sparino le note di Beat it, quindi, o di Billie Jean, o di Bad o di Dirty Diana, o di Earth Song, o di Thriller, o di una delle decine di altre canzoni che compongono il suo repertorio. Musica al massimo volume, e azzardiamo pure qualche passo di danza. Il solo modo sensato di ricordare un Re, anzi, il Re del Pop

di Michele Monina
Michael Jackson, sei anni fa il mondo del pop ha perso il suo Re

Sono passati sei anni oggi. Esattamente sei anni fa il mondo ha perso il suo re. Esattamente sei anni fa è morto, improvvisamente, poi abbiamo scoperto in circostanze tragiche, Michael Jackson, e ancora oggi milioni di fan non se ne sono fatti una ragione. Il mondo del Pop non se n’è fatto una ragione, perché il suo posto regale è rimasto vacante, e perché ancora oggi, a distanza di anni dalla sua morte, in molti guardano a lui e alla sua arte come a un modello inimitabile ma cui guardare per ispirarsi. Fossimo Mel C o Emma Burton diremmo Wannabe.

La storia la conoscete tutti. Enfant prodige succube di un padre padrone che lo ha messo sin da piccolissimo sotto i riflettori, in qualche modo relegando la sua mente in un mondo di fantasia, Paese delle Meraviglie che poi ha cercato di costruire fisicamente, Michael Jackson è Michael Jackson sin dagli anni settanta. Allora era il leader dei Jackson Five, in compagnia dei suoi fratelli, lui fratello minore dotato di maggior talento, poi è stata la volta di una carriera solista senza pari. Thriller è ancora oggi l’album più venduto al mondo. E gli altri venuti prima e dopo non sono da meno. Centinaia di milioni di copie vendute dei suoi album. Singoli piazzati in vetta alle classifiche di mezzo mondo. Ma soprattutto uno stile, alla Michael Jackson, che ha fatto scuola. Al punto che oggi, a sei anni dalla sua morte, si fatica a stabilire se i suoi epigoni, diciamo il novanta per cento di chi pratica il genere cosiddetto R’n B o Urban, si rifacciano palesemente a lui o agli artisti a cui si rifaceva Jacko, su tutti James Brown.

Dovessimo pensare a un tratto distintivo del suo transito terrestre, a un simbolo da ergere a vessillo del suo impero nel mondo del Pop, mondo che ha visto in Madonna il suo contraltare femminile, saremmo assaliti dalle vertigini, tanto e tale è quell’universo artistico che ingloba la sua carriera. Il suo modo di usare il falsetto, il suo incedere nervoso, cattivo, il funky che si faceva sintetico, le chitarre elettriche, distorte, appoggiate su un ritmo che prima dell’invenzione del cosiddetto crossover nessuno aveva mai provato a fondere, almeno nel mainstream (George Clinton è un altro Re del Pop che prima o poi ci dovremo decidere a celebrare, ma non oggi e non qui), una rivalità, in realtà solo presunta, con un altro genio assoluto come Prince, in realtà molto più cerebrale di lui, i passi di danza unici, tra tutti il moonwalk, il guanto argentato, il cappello calato sugli occhi, i mocassini con i calzini bianchi, la pelle che si è fatta via via più chiara, fino a diventare quasi trasparente, il suo voler essere sempre bambino, Peter Pan della musica in un mondo di adulti che non lo hanno capito, il matrimonio con Lisa Marie Presley, le accuse mai provate di pedofilia, il suo dormire dentro una camera iperbarica, l’amicizia con lo scimpanzé del suo impero, non a caso chiamato Neverland, come nelle pagine di Peter Pan, la storia con Diana Ross, capace di mangiarlo vivo, i video sempre innovativi, ancora oggi anni luce di fronte agli altri, We are the world, primo esempio di brano capace di mettere insieme tutto il suo mondo, i duetti importanti con Paul McCartney, il catalogo dei Beatles comprato come fosse un ghiacciolo al bar dell’oratorio, le collaborazioni con Quincy Jones, l’amicizia col tipo di Mamma ho perso l’aereo, la morte prima del declino, il giallo sulla morte stessa, col medico accusato d’omicidio, brutto finale di una vita leggendaria. Tanto. Troppo. Michael Jackson è una icona del Novecento. E non fosse morto così presto lo sarebbe sicuramente stata anche di questo che stiamo vivendo.

Lo è, per certi versi, per quello che ha lasciato in eredità, per aver contribuito come pochi, con Stevie Wonder e la Motown, con Quincy Jones e con il suo idolo James Brown, appunto, a dar vita a un genere poi frequentato da tanti altri, si pensi a un Kanye West, a una Rihanna, a un Justin Timberlake, tanto per fare tre nomi tra quanti si vedono spesso in vetta alle classifiche oggi, via via fino ad arrivare ai nostrani The Kolors (e Dio mi perdoni per averli citati in un articolo che parla del Re del Pop). E siccome oggi si ricorda la dipartita di una leggenda, amore per la musica vuole che lo si ricordi per quel che ha lasciato, canzoni capaci di superare il tempo come poche, attuali, forse addirittura futuristiche, piuttosto che ricordare come ci ha lasciato. Non si farà cenno, quindi, qui alla sua morte, perché chi è vissuto cercando di non crescere, Peter Pan con mocassini bianchi e guanto d’argento, non può certo confrontarsi con una cosa così banale e comune come la morte. Che le casse di tutti gli stereo del mondo sparino le note di Beat it, quindi, o di Billie Jean, o di Bad o di Dirty Diana, o di Earth Song, o di Thriller, o di una delle decine di altre canzoni che compongono il suo repertorio. Musica al massimo volume, e azzardiamo pure qualche passo di danza. Il solo modo sensato di ricordare un Re, anzi, il Re del Pop.

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