Non pensavo fosse utile intervenire sulla faccenda delle considerazioni ironiche riservate dal critico televisivo del Corriere alle “signore in rosso” che hanno partecipato alla serata organizzata da Santoro. Una faccenda troppo triste per tenerla viva dopo che già Travaglio e Padellaro ne avevano spiegato l’assurdità sulle pagine del Fatto. Ma ora che Oliviero Beha l’ha ripresa spostando saggiamente il discorso sul problema più generale della critica televisiva, dei suoi limiti e della sue funzioni, appartenendo alla schiera di coloro che scrivono di televisione mi sento quasi in dovere di dire la mia.
Prima di tutto mi permetto di ricordare che sulla storia della critica televisiva in Italia esiste un libro bellissimo e utilissimo, si intitola La coscienza di Mike e l’ha scritto qualche anno fa Nanni Delbecchi per Mursia. Poi se dalla ricostruzione del passato vogliamo passare all’urgenza della complessa attualità, cominciamo col dire che oggi più che mai è venuta meno l’obiezione più radicale che si usava fare alla critica televisiva. Si diceva un tempo che questa critica, a differenza di quella letteraria o cinematografica, non poteva costruire nulla in quanto non orientava i consumi visto che parlava di un oggetto, un programma tv, che già era stato consumato, gradito o ignorato dal pubblico.
Oggi un prodotto televisivo inteso come un unicum è cosa rarissima (si procede per serie) e il suo consumo avviene in tempi decisi dallo spettatore. Per cui l’intervento di orientamento, di guida – come dice una critica avveduta come Alessandra Comazzi – non è affatto superfluo.
Ma, entrando più nel merito, di cosa si deve occupare la critica televisiva per esercitare in maniera dignitosa, proficua e interessante il suo compito? Beha propone che si occupi di ciò che lo spettatore non vede, dei vari fattori, anche economici, che hanno prodotto un programma, di quello che c’è prima della sua emissione. Ma io, avendo avuto in gioventù una formazione culturale all’insegna dello strutturalismo, direi che è importante rivelare non solo ciò che c’è prima ma ciò che c’è dentro, nella costruzione del testo. Lo proponeva e lo realizzava magnificamente quello che è stato il più grande critico italiano: Beniamino Placido, che nella sua lunga militanza di critico televisivo di Repubblica ha cercato e saputo spiegare agli italiani, sottoposti all’invasione neotelevisiva, come funziona la tv, come si compone e si scompone un testo televisivo, quali sono le logiche che lo governano e ne determinano il senso e gli esiti, commerciali e non solo.
Questo, infatti, è ciò che si deve cercare di comprendere e far comprendere della produzione e del consumo televisivi. Per esempio, tornando al punto da cui siamo partiti, quello che è importante per un critico è individuare quale significato avesse la presenza di Parietti, Ferilli e Guerritore nella costruzione santoriana, valutare quale coerenza presentasse all’interno del testo, definire quale esito (forse anche negativo, di banalizzazione) producesse sul senso del discorso. Questo fa la critica televisiva seria, la questione del marito giusto invece è faccenda di un altro tipo di giornalismo.