“Hai una faccia conosciuta”.
Il tassista, che mi ha appena caricato in un afoso pomeriggio in una strada di Milano, mi sorride.
Mi è istintivamente simpatico e non perché dimostra tanto tatto.
Simpatico lo è davvero.
Cominciamo a parlare di tutto. Di radio. Di televisione. Di musica.
“Meno male”, mi confida dopo un po’. “Quando porto qualcuno che mi piace del mondo dello spettacolo, finisce che mi delude sempre”.
Tutto a un tratto diventa serio.
“Senti Gabriele”, siamo passati subito al tu, “a questo punto però mi devi togliere una curiosità, visto che sei esattamente come mi aspettavo: ma perché scrivi un blog per Il Fatto?“.
E’ una domanda che mi hanno rivolto in tanti.
Per qualcuno equivale ad essere un militante del Ku Kux Klan.
Potrei cavermela con la solita battuta: “In realtà, la domanda giusta è: perché loro mi permettono di scrivere?“.
Vado indietro col pensiero.
Marco Travaglio che mi chiede di tenere un blog.
Mi sento lusingato ed inadeguato.
Tentenno. Non so che dire.
Domando: “E di cosa doveri scrivere?”.
Risposta: “Di quello che ti pare e come ti pare”.
Set, partita, incontro.
Ciascuno di noi, in qualsiasi ambito, deve accettare dei compromessi. Ha dei limiti. Elegantemente: delle linee guida. Realisticamente: dei paletti.
L’ho già scritto e mi ripeto – perché lo trovo incredibile -: in due anni nessuno mi ha detto cosa scrivere ma, soprattutto, cosa non scrivere.
Nessuna pressione diretta o indiretta. Nessuna raccomandazione furbetta mascherata da consiglio.
Conosco personalmente giornalisti che hanno lasciato stipendi più consistenti per andare a scrivere per questo giornale o per questo sito.
Sicuramente ci saranno dinamiche conflittuali, liti, discussioni. Dove non ci sono? Qualcuno mi smentirà perché ha avuto un’esperienza diversa. Parlo per me. Come ho sempre fatto.
Sfogliando il giornale o navigando sul sito, si trovano articoli che sostengono tesi diametralmente opposte. Io a volte sono totalmente d’accordo. Altre volte completamente in disaccordo. Non è fantastico?
Ci sono decine di quotidiani, giornali on line, siti pronti a darci sempre ragione.
E’ così rassicurante…
Il mondo gira esattamente come diciamo noi. Meno male.
Qui no. Un piccolo mondo un po’ anarchico dove si esprimono idee ed opinioni palesemente inconciliabili.
In due anni ho scritto di cose che mi irritavano, mi commuovevano, mi indignavano, mi coinvolgevamo.
Alcuni post li pubblicherei di nuovo parola per parola. Altri li correggerei.
Qualcuno lo butterei.
Su molte cose, grazie ai commenti, ho potuto vedere la vita da una prospettiva diversa.
Non è a questo che serve il confronto?
Siamo arrivati all’aeroporto e mi rendo conto che il mio nuovo amico si aspetta una risposta.
“Perché sono libero di scrivere quello che mi pare”.
Il tassista mi sorride. Pago, lo saluto.
Faccio due passi e mi chiama nuovamente.
“Gabriele, scusa, ma tu che intendi con libertà?”.
Proprio a me doveva capitare un tassista filosofo…
Cerco una frase ad effetto. Una di quelle che intasano le bacheche di Facebook. Una bella citazione. Un aforisma che mi regali un’uscita di scena strepitosa.
Non mi viene in mente niente.
Così dico quello che penso.
“Che sono libero di sbagliare con la mia testa. Senza che nessuno mi suggerisca od obblighi a sbagliare con la sua”.
Il tassista mi guarda perplesso.
“Credimi. E’ una cosa che mi riesce benissimo”.
Mi sorride. Sale in macchina e va via.
Spero di tornare a sbagliare liberamente a settembre.
Un abbraccio a tutti.