I sindacalisti dovrebbero preoccuparsi più dei disoccupati di domani che di quelli di oggi. Eppure l’unico che in Italia sembra avere qualcosa da dire sulle profonde trasformazioni dell’economia è il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco. Mentre la Cgil, la Cisl e la Uil si perdono in faide interne e continue richieste di tavoli con il governo, Visco segnala problemi più profondi che l’arrivo del Jobs Act. Il 13 giugno, alle giornate del Lavoro della Cgil, ha ricordato: tra il 1995 e il 2007 l’aumento delle importazioni cinesi ha cancellato 120 mila posti di lavoro nel settore manifatturiero italiano; la flessibilità contrattuale introdotta negli anni Novanta (soprattutto dal centrosinistra) “ha ridotto il costo complessivo del lavoro e ha aumentato la convenienza a impiegare lavoro nei processi produttivi”, la disoccupazione è scesa dall’11,3 per cento nel 1998 al 6,1 del 2007. Ma le imprese italiane hanno smesso di investire in tecnologia, accontentandosi di sopravvivere grazie a dipendenti più economici anche se poco produttivi.
Anche ieri Visco ha ricordato che la situazione del nostro Paese non è nella media, ma molto sotto: “Il problema è che siamo fermi. Solo alla fine di quest’anno l’Europa tornerà ai livelli produttivi del 2008, ma l’Italia è ancora lontana e serviranno diversi anni per recuperare quel livello”. E tutto questo mentre ci sono sconvolgimenti mondiali di cui in Italia sembra essersi accorto solo Visco: Internet delle cose, robotica, sviluppo dei cloud, genomica, stanza 3D. Una rivoluzione industriale è in corso ovunque (tranne che da noi), combinata a un “ristagno secolare”, cioè a uno squilibrio profondo dei tassi di risparmio e degli investimenti che la politica monetaria non riesce a correggere.
Sopravvivere è difficile, farlo aspettando passivamente che le cose migliorino come sta facendo l’Italia e il suo governo è un suicidio. Ma nessuno sembra ascoltare i moniti di Visco.
Il Fatto Quotidiano, 26 giugno 2015