Sto scrivendo direttamente dal Pride di Londra: 750mila persone, un transennamento di 5 chilometri per permettere che la parata possa passare indisturbata per Oxford street e poi Regent street e finire a Trafalgar Square, piazza simbolo della fine della Seconda Guerra mondiale. Il carro che apre la sfilata non può essere che quello dell’Ambasciata Americana a Londra (vedi foto).
Il governo statunitense ci mette la faccia e qualche soldo per dichiarare di nuovo che da loro sono tutti uguali. Qui a Londra persone di qualsiasi genere, etnia, orientamento sessuale si sono dati appuntamento non per rivendicare un diritto specifico (dato che qui a 1 ora e mezzo di volo dall’Italia, i diritti ce li hanno tutti), ma per celebrare i risultati ottenuti attraverso tensioni sociali, attacchi fisici e verbali ecc ecc che hanno piegato ma non spezzato la comunità Lgbt. Un po come da noi si festeggia il 25 aprile perché finalmente siamo una nazione libera. Ma lo siamo davvero ? Mentre ancora c’è chi trasversalmente tra etero e gay sostiene l’inutilità (se non la dannosità del Gay Pride che dà una immagine nella quale molti non si riconoscono) moltissimi italiani continuano a vedersi negati diritti fondamentali.
Le domande sono sempre le stesse: perché scendere in piazza con la musica alta e i ragazzi in costume da bagno ? Come aiutiamo il processo di civilizzazione dell’Italia arrivando ad un traguardo da soli prima che sia l’Europa a trascinarci per le orecchie ? La risposta è semplice. Essendo lì, sotto il sole a marciare. Comprendendo che un Pride fatto su misura per una categoria di gay tradirebbe l’obiettivo di dare valore alla diversità che questa ci piaccia o no. Non mi fa piacere che sui Tg vada la trans perché fa colore? Legittimo, ma io marcerò perché lei possa esserci. Perché se la comunità Lgbt inizia a ragionare come Gasparri (mi fa schifo = quindi non ti do i diritti che ti spettano) davvero non ci muoviamo. Non che il Pride avvenuto poco fa a Roma fosse esente da pecche anche a mio avviso gravi. Una scaletta dei discorsi molto improvvisata o almeno così sembrava a chi scrive. La parola F urlata più volte a squarciagola dagli organizzatori al microfono dimostrando davvero di non avere idea della direzione che la comunicazione debba prendere, ovvero anche della lotta al bullismo verbale anticamera di quello fisico. Le parole hanno una enorme importanza in questioni di questo tipo e la comunità Lgbt dovrebbe esserne maggiormente consapevole.
Ma io c’ero. Facevo numero. Un numero che solo crescendo farà la differenza. Un numero che deve dimostrare che i bigotti che hanno partecipato al family day sono la vera minoranza, ma quella si con tutti i diritti.