J. M. Keynes definiva così (lui, più precisamente, parlava di “parodia dell’incubo del contabile”) quella visione del mondo, prima che teoria economica, fondata sull’ossessiva propensione a contabilizzare economicamente, nell’immediato, tutti gli aspetti della vita e tutte le risorse della natura.
Quella “norma, tratta da un calcolo finanziario suicida”, che “regola ogni passo della vita” e in forza della quale “noi distruggiamo le bellezze della campagna perché gli splendori della natura, accessibili a tutti, non hanno valore economico. Noi siamo capaci di chiudere la porta in faccia al sole e alle stelle, perché non pagano dividendo.”
Quel dogma è da sempre immanente alla “costituzione materiale” di ogni sistema socio-economico “fondato sul profitto”, anche se con gradazioni assai diverse da realtà a realtà. Ma negli ultimi anni è diventata imperativa, specie in alcuni paesi.
Come l’Italia.
Per stare giusto agli ultimissimi tempi, quella norma, e il relativo incubo, sono ufficialmente assurti al rango di feticcio da adorare, di idolo sul cui altare sacrificare “gli splendori della natura” con l’avvento del verbo economico e culturale del governo dei Professori, e di chi quel verbo e il resto delle strutture linguistiche “suggeriva” da fuori. La produzione legislativa di quel governo (i vari decreti “cresci Italia” e affini), il totem liberista che venerava e serviva, l’ossessione deregolatoria che la muoveva, hanno sacralizzato l’assunto, anche grazie al consenso bulgaro che all’epoca si registrò intorno agli stessi, per cui se le bellezze della campagna non hanno valore economico, si possono anche distruggere.
Dopo quell’Esecutivo, e dopo l’interludio Letta, si è giunti fino a quello attuale.
Il tasso accademico complessivo, tra quella compagine governativa e quella odierna, è decisamente calato. Le pubblicazioni scientifiche dei rispettivi più prestigiosi esponenti si sono significativamente compresse. Oggi stanno, di regola, in 140 caratteri. Tuttavia, nonostante queste differenze “curricolari”, il verbo economico – culturale, il principio ispiratore dell’azione di governo restano quelli per cui, se non pagano dividendi, si chiude la porta in faccia al sole e alle stelle.
E si trivella il mare.
Anche in questo caso, l’Esecutivo che, probabilmente, ha più contribuito a sdoganare nell’immaginario collettivo l’idea che il mare sia anzitutto un enorme pozzo petrolifero, che chiede, quindi, solo di esser perforato per le magnifiche sorti e progressive della “crescita economica”, è stato proprio il governo dei Professori. Il quale è stato anche, più concretamente, quello che ha, di fatto, condonato, con un gioco di prestigio normativo inserito nel benemerito “Decreto sviluppo”, una serie di “attività di ricerca, di prospezione nonché di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi in mare”, che erano, invece, state bloccate con il c.d. “correttivo ambientale”, del giugno 2010 (addirittura del governo Berlusconi), sull’onda emotiva del disastro ambientale provocato nel Golfo del Messico dalla piattaforma petrolifera della British Petroleum.
Pochi giorni fa, in linea con questi nobili ascendenti, il Ministero dell’Ambiente ha emanato 11 decreti di “compatibilità ambientale” per altrettanti progetti di prospezione di idrocarburi in Adriatico con la tecnica dell’air-gun (opportunamente espulsa, in tal senso, su sollecitazione dello stesso Ministero, dalla recente legge sugli ecoreati.
Progetti che riguardano soprattutto il mare della Puglia, che consolida, quindi, la sua funzione istituzionale di piattaforma energetica al servizio di tutta la nazione; ma, soprattutto, delle compagnie del settore. Che tutto ciò contenga discrete probabilità di devastazione di una parte significativa del patrimonio naturale, nonché dell’economia locale, di questa regione è un dato che ai bilanci delle multinazionali, com’è noto, cale assai poco.
Ma i settori più consapevoli della cittadinanza attiva, della Puglia come di tutti i territori sistematicamente stuprati per la bulimia di profitto di pochi, ormai hanno sempre meno intenzione di continuare a rivestire il ruolo di mera posta attiva di quei bilanci aziendali, per assumere, invece, quello, assai più dignitoso e salubre, di difensori civili di una terra, del suo ambiente e, dunque, della salute di chi ci vive.
Forti anche dell’autorevolissimo insegnamento che arriva da un recente testo “sulla cura della casa comune”: “E’ lodevole l’impegno di organismi internazionali e di organizzazioni della società civile che sensibilizzano le popolazioni e cooperano in modo critico, anche utilizzando legittimi meccanismi di pressione, affinché ogni governo adempia il proprio e non delegabile dovere di preservare l’ambiente e le risorse naturali del proprio Paese, senza vendersi a ambigui interessi locali o internazionali”.