Lo studio del ramo lombardo di Confindustria con 460 questionari e 30 interviste. La ricerca della "scorciatoia" per ottenere benefici dalla pubblica amministrazione rischia di aprire la porta al crimine. E l'analisi delle più recenti indagini giudiziarie dimostra che le imprese infiltrate finiscono sempre per fallire
Nessuna impresa della Lombardia tra quelle coinvolte nelle indagini sulla mafia al Nord tra il 2009 (Parco Sud) e il giugno 2015 (Mafia Capitale) si è salvata. Hanno tutte chiuso i battenti per debiti, incapacità di restare nel mercato, fuga dei fornitori. Call center, cooperative della logistica, imprese di edilizia, ristoranti: l’esito è sempre lo stesso (nella foto Ilda Boccassini, capo della Dda di Milano). Gli imprenditori non solo si sono lasciati coinvolgere dalle organizzazioni criminali, sono anche stati estromessi dalle aziende, di fatto colonizzate da ‘ndrangheta camorra e Cosa Nostra. È il risultato dell’analisi sulle più importanti inchieste giudiziarie che hanno colpito imprese lombarde, a cui Assolombarda ha aggiunto un questionario e delle interviste agli imprenditori lombardi. La ricerca sui “Rischi di infiltrazione mafiosa nelle imprese del Nord” è stata svolta da Assolombarda attraverso la distribuzione di 460 questionari e 30 interviste individuali a imprenditori iscritti alla Confindustria lombarda.
Dal questionario emerge che c’è una diffusa ignoranza in materia. Secondo il 32% del campione il primo passo dell’infiltrazione mafiosa avviene attraverso meccanismi di corruzione. Quando si chiede di ottenere qualcosa, spesso non si considera il rischio di trovarsi di fronte a un criminale. In questo modo la mafia si mimetizza, appare il “normale” olio per ungere i meccanismi della burocrazia italiana. Perché questa è l’idea comune della corruzione: un meccanismo di cui non si può fare a meno e che in fondo non fa male a nessuno. E invece da qui scaturisce il primo avvicinamento dei mafiosi all’impresa. I risultati della ricerca affermano che dalla collusione un quinto degli imprenditori pensa di poter ottener un incremento del profitto, un quarto la possibilità sopravvivere alla crisi, un altro quinto un vantaggio sulla concorrenza.
Nonostante questi allarmi, Assolombarda non nota incrementi delle denunce: “Ma non ci importa neppure – afferma Antonio Calabrò, responsabile legalità di Assolombarda –. Il nostro vero obiettivo è aumentare la consapevolezza in modo che il contributo degli imprenditori, anche quando chiamati a testimoniare, possa essere più preciso e importante”. Assolombarda definisce la sua “una battaglia culturale”. Più che le segnalazioni, quindi, importa che si conosca il rischio che si corre a portarsi in casa esponenti della “zona grigia”. Però il tema che resta scoperto è come intervenire prima che sia troppo tardi. Come ha affermato anche il giudice del Tribunale di Milano Alberto Nosenzo, “oggi la magistratura interviene quando ormai non c’è più nulla da fare. Non è un problema di gestione delle imprese, ma di tempi d’intervento”.
Le norme vigenti non sono adeguate, dicono gli imprenditori ad Assolombarda. Il decreto legislativo 231 del 2001 non è considerato sufficiente: non ha strumenti per prevenire l’infiltrazioni, ma solo per intervenire post. Gli imprenditori chiedono maggiore controllo e difesa sociale da parte delle forze dell’ordine; l’incentivazione di reti di supporto che possano intervenire preventivamente, in anticipo rispetto alla segnalazione all’autorità giudiziaria e da ultimo maggiore formazione sui fenomeni mafiosi. Ma quello che manca, ad oggi, continua ad essere la capacità di denunciare. Prima che ci arrivi per forza la magistratura.