La settimana scorsa su DRepubblica un reportage segnalava una nuova tendenza, quella del divorzio rinviato: coppie con figli che sono arrivate al capolinea e che invece di passare le carte all’avvocato, decidono di aspettare la crescita dei loro figli per poi eventualmente separarsi. Il tutto accompagnato da patti scritti più o meno leonini.
Com’è ragionevole questo farsi carico delle conseguenze dell’amore spento! Troppo ragionevole direi quasi ragionieristico.
Si evocano i figli e si revocano i costi della separazione, i costi economici, i quali fanno paura. E così ancora una volta si finisce con lo stare insieme per puro calcolo egoistico: quello originario ammantato di passione e questo finale di compassione (per se medesimi).
Un rimedio peggiore del male.
La fragilità del legame di coppia è nelle stesse premesse del suo formarsi.
Credo che ormai qualcuno, laicamente, lo dovrà pur dire: pensare che basti l’amore e la passione nella coppia per generare e far crescere figli è una follia.
Chi lo pensa non faccia figli, non è all’altezza dei compiti genitoriali.
L’amore nella declinazione presente, centrato sulla sessualità, sulla passione e sul possesso dell’altro e di sé, ha la scadenza incorporata, non regge alle contraddittorie esigenze di autoaffermazione individualistica proiettate tutte fuori le mure di casa e in ogni caso si spegne all’arrivo di un nuovo essere che ti sottrae tempo e attenzione.
Dietro i numeri crescenti delle separazioni vi sono ovviamente tante storie, ma un unico contesto di svilimento della funzione genitoriale.
E se invece negli anfratti del precipizio in cui ci troviamo alla ragionevolezza sostituissimo l’arditezza di un rilancio con una spettacolare e generosa mossa del cavallo, e provassimo a rifondare su basi nuove e più solide il rapporto di coppia con figli, elaborando insieme un progetto di vita?
Certo non fondato sulla passione, non sulla svenevolezza del sentimentalismo, ma su una responsabile ricerca di senso della vita e dalla cura del prossimo, cioè del figlio liberamente generato.
Ma c’è una condizione: che lui e lei la smettano di pensare a se stessi in termini individualistici. Chi decide di mettere al mondo un figlio deve sapere che nella definizione della propria individualità entra di diritto e necessariamente il destino del figlio che non è un qualcosa che sta ai lati e che si giustappone alle decisioni prese, ma che ha il diritto di poterle condizionare attraverso la coscienza dilatata del genitore responsabile.
Mi vengono in mente i ‘nuovi e più alti doveri’ di Elio Vittorini da far maturare nel pensiero laico, in quel pensiero che per decenni si è pensato ed ha agito in funzione dei diritti degli individui e che ha titolo per azzardare doveri.