Si è chiuso pochissimi giorni fa il concorso indetto da una nota casa farmaceutica il cui premio è un contratto di collaborazione di un anno.
La cosa mi ha fatto tornare alla mente, con le dovute importanti differenze, le notizie di alcuni anni fa (2009 – 2010) relative ad alcuni operatori della grande distribuzione che mettevano in palio, invece dei soliti premi legati alla tessera fedeltà, un posto di lavoro. La trovata pubblicitaria era geniale: sostituire pentole, suppellettili o altri premi del genere con una delle cose che tra le più ambite in ogni famiglia italiana, cioè il lavoro per sé o per i propri figli. Ecco che ogni trenta euro di spesa si otteneva un talloncino che dava diritto a partecipare all’estrazione (si estrazione, avete capito bene!) di un posto di lavoro a tempo determinato di un anno.
Da ricordare che nel 2009 vigeva ancora l’obbligo (oggi eliminato con la Riforma Fornero e Poletti) di indicare, a pena di nullità del contratto, in modo preciso le “ragioni tecnico, organizzative o produttive” che giustificavano l’apposizione del termine. Sarei curioso di capire quale causale abbiano indicato, visto che difficilmente poteva qualificarsi come ragione giustificatrice del contratto a termine l’aver vinto l’estrazione del concorso.
In ogni caso ed al di là di questa divagazione di carattere storico-giuridica, ciò che mi interessa sottolineare è come l’esperimento del supermercato di Varese fosse stato così un grande successo da avere una serie di emulazioni in altre parti d’Italia: dal Lazio alla Sardegna e così via.
Prima di esprimermi su un simile sistema di selezione ho provato a fare un sondaggio tra conoscenti ed amici, ricavando per lo più impressioni non positive, che andavano a confermare le mie convinzioni.
Già in passato mi sono espresso (ricevendo alcune critiche da parte dei lettori) sul fatto che la selezione del personale presuppone un notevole tecnicismo e che non può essere il frutto del caso: l’obbiettivo è trovare la persona giusta per il posto di lavoro vacante.
Si potrebbe obbiettare che per ruoli meno qualificati la selezione formale potrebbe essere uno strumento sovrabbondante. A tale opinione replico richiamando quanto scritto in passato: “Sarebbe assolutamente fuorviante ipotizzare che per i ruoli più bassi sia necessario indagare solo sul possesso di competenze tecniche, senza aver alcun riguardo alla capacità del candidato di raggiungere degli obbiettivi, di rispettare l’organizzazione aziendale e di essere capace di coordinarsi con gli altri lavoratori”.
Insomma, la lotteria non può, a mio parere, ritenersi uno strumento selettivo adeguato. La persona che vincerà potrà avere qualunque età, qualunque preparazione e qualunque caratteristica, anche la meno compatibile con il lavoro da svolgere. Ad esempio, se mia nonna (povera donna, ormai scomparsa da tanto tempo) fosse risultata vincitrice? Ve la immaginate ad oltre 80 anni alla cassa?
Per quanto riguarda, invece, il concorso (non, quindi, una lotteria) da cui ho preso spunto iniziale i presupposti sono diversi. Non solo ci sono un bando ed una commissione di esperti che è chiamata a giudicare, ma esiste soprattutto un fondamentale strumento di valutazione: il progetto di “Trasparenza Digitale”.
La persona che si aggiudicherà il concorso sarà, poi, chiamata a dare implementazione al progetto elaborato. Insomma, siamo di fronte ad una selezione con concorso, simile a quella di solito utilizzata in funzione di trasparenza dalla PA. Nonostante tali elementi positivi mi rimane un dubbio: perché rendere insindacabile il giudizio della giuria e tutte le modalità operative?
Forse questa mia perplessità è dovuta al fatto che faccio sempre fatica ad adeguarmi alle più stimolanti novità.