Risponde al telefono dopo pochi squilli, Nicola Lagioia, fresco vincitore del Premio Strega con il suo romanzo La Ferocia. È concitato, appassionato, evidentemente frastornato da una vittoria che per ogni scrittore è una sorta di consacrazione nell’Olimpo della letteratura. Nonostante le tante chiamate di una giornata infernale, Lagioia è un fiume in piena e si concede alle domande con trasporto, soprattutto quando il discorso vira sul caos greco: “È una tragedia. La Grecia è un posto che ci appartiene da sempre, da prima di essere nati”.
Mi permetta una prima domanda banale: come si sente?
Sono rintronato. Sarà anche banale, ma non immaginavo di accendere il cellulare e di ricevere così tanti sms e chiamate. Ho dormito due ore, ma ovviamente sto molto bene.
Alla fine è riuscito a vincere la sfida tanto attesa con la misteriosa Elena Ferrante…
Stimo molto tutti e cinque gli autori entrati in cinquina, anche Elena Ferrante. Peraltro il suo libro mi è piaciuto molto. Sono contento di averla avuta come avversaria.
Lei ha 42 anni, e in Italia quelli della sua età sono considerati giovani. È stata una rivincita generazionale?
Non so, anche perché il concetto “generazionale” può funzionare in politica, ma non in letteratura. Ci sono libri maturi scritti da giovanissimi, basti pensare a I Buddenbrook, che Thomas Mann scrisse a 26 anni. Oppure, al contrario, ci sono autori che in età avanzata hanno scritto romanzi freschi, come Jules e Jim, pubblicato quando Roché aveva già settantaquattro anni.
E poi è già da qualche anno che lo Strega si è aperto agli autori più giovani, come Giordano o Piperno. Per fortuna gli scrittori non sono come i calciatori: a parte alcune eccezioni come Rimbaud o il Moravia de Gli Indifferenti, il meglio arriva in età più matura. L’esempio migliore in questo senso è Philip Roth, che in poco più di un decennio, tra i 58 e i 70 anni, ha scritto i suoi romanzi migliori. Però è vero che con me ha vinto una certa area culturale. Lavoro da molti anni in Minimum Fax, sono cresciuto nell’area indipendente romana. Fino a pochi anni fa non facevamo parte dell’aristocrazia letteraria, ma è una realtà che nel frattempo è cresciuta molto.
Durante la premiazione ha fatto riferimento anche alla crisi economica greca. È stata una dedica?
Sì, perché io sono di Bari, sono mediterraneo, vivo in un paese del sud dell’Europa e sentire la Merkel dire “Senza euro non c’è l’Unione europea” è una bestemmia. Semmai è vero il contrario.
Quello che sta succedendo in Grecia è una tragedia e io ne soffro particolarmente. Essendo pugliese, da giovani andavamo in vacanza lì e ho conosciuto molti giovani greci che venivano a studiare da noi. Per me andare in Grecia è davvero come andare a Trani o Polignano. È un posto che ci appartiene da sempre, da prima di essere nati. Mi ci sono persino sposato, un paio di anni fa.
Nel caos greco le colpe stanno solo da una parte?
Ma no, loro hanno truccato i conti. Ma se facciamo parte della stessa famiglia, possiamo reagire cacciandoli dall’Europa? È come se, dopo la merda di Mafia Capitale, cacciassimo Roma dall’Italia. La solidarietà fa parte della politica, non dobbiamo mai dimenticarlo. Qualche tempo fa ho letto un bellissimo articolo di Ceronetti che confrontava il debito greco con il debito che tutti noi abbiamo verso la Grecia. Non sono solo minchiate poetiche: i paesi si costruiscono anche su questo. Gli Stati Uniti, con tutte le loro contraddizioni, riescono comunque a trasformare la loro cultura in economia e profitto. Noi, invece, abbiamo trasformato la Fortezza Europa in un regno del rigore. I tedeschi, così come gli italiani, dovevano farsi perdonare altre cose orribili come la Shoah, altro che il debito.