Dopo Vincenzo Manes, Luciano Balbo, Achille Saletti, Luca Fazzi e Carlo Borzaga, anche Stefano Lepri, vicepresidente Pd al Senato e relatore del disegno di legge, interviene nel dibattito sulla riforma: "Le novità e i nodi da sciogliere sull'impresa sociale"
L’impresa sociale, riconosciuta per legge nel 2006, non è finora decollata come formula soprattutto perché non sono stati riconosciuti particolari incentivi e vantaggi fiscali, perché si è esclusa ogni forma di pur modesta remunerazione del capitale e per un’eccessiva rigidità prevista nella governance. Le novità del disegno di legge delega sul terzo settore e l’impresa sociale puntano al superamento di questi limiti. Le imprese private e le amministrazioni pubbliche potranno essere socie e assumere cariche sociali negli organi di amministrazione delle imprese sociali, salvo il divieto di assumerne la direzione, la presidenza e il controllo. Si prevede il coordinamento rispetto alle onlus di diritto, il che dovrebbe portare a un identico o simile regime fiscale, qualsiasi sia la forma giuridica adottata. Sono poi estese a tutte le imprese sociali i benefici e gli incentivi finora riconosciuti, in tutto o in parte, a cooperative sociali, associazioni e fondazioni: donazioni, 5 per mille, fondi di garanzia, concessioni di immobili pubblici, programmi di venture capital. Quindi la delega innova profondamente, a condizione che siano rispettate le tre colonne riassunte nelle finalità solidaristiche e civiche, cioè l’attività in settori di utilità sociale, il pubblico beneficio e il vincolo non profit.
Nonprofit o low profit? – Il testo approvato alla Camera, nel definire i vincoli alla distribuzione di utili, prevede “forme di remunerazione del capitale sociale e di ripartizione degli utili, da assoggettare a condizioni e limiti massimi, differenziabili anche in base alla forma giuridica adottata dall’impresa, in analogia con quanto disposto per le cooperative a mutualità prevalente, che assicurino in ogni caso la prevalente destinazione degli utili al conseguimento degli obiettivi sociali”. Suggerisco un’altra formulazione: “Previsione di forme di remunerazione del capitale sociale e di ripartizione degli utili, da assoggettare alle condizioni e ai limiti massimi applicati alle cooperative a mutualità prevalente e che assicurino comunque la prevalente destinazione degli utili a una riserva indivisibile, da destinare integralmente, in caso di scioglimento, ad altre organizzazioni di terzo settore con finalità coerenti con lo scopo dell’impresa sociale”. L’intento di attrarre capitali di rischio può infatti essere già realizzato applicando i criteri della mutualità prevalente, che oggi arriva a riconoscere una remunerazione fino al 5% (2,5% in più della remunerazione dei buoni fruttiferi postali) del capitale sociale. In contesti di inflazione è possibile anche la rivalutazione del capitale sociale sottoscritto al valore reale, mentre il vero limite è quello alla distribuzione di profitti eccessivi, qualora gli utili siano elevati (se, ad esempio, si fa il 20% di utili rispetto al capitale sociale, oggi il regime della mutualità prevalente consente di distribuirne solo fino al 5%; il resto va a riserva indivisibile).
Si consideri tale ulteriore vincolo, che è bene estendere a tutte le altre forme giuridiche che vogliano operare come impresa sociale, senza eccezioni: quello della riserva indivisibile (lock asset), a cui va destinato ogni anno almeno il 30% degli utili e che non può mai essere devoluto ai soci, anche in caso di scioglimento, bensì solo a finalità coerenti con lo scopo dell’impresa sociale. In sintesi, si propone di introdurre per tutte le imprese sociali la possibilità di remunerare il capitale in misura limitata e mantenendo un vincolo totale sul patrimonio, come già oggi previsto per le cooperative sociali. La loro impetuosa crescita in questi anni evidenzia infatti come tali equilibrati limiti, non annacquati entro una generica responsabilità sociale, non siano stati affatto penalizzanti. Si obietterà che la formulazione del testo approvato alla Camera non contraddice quanto sopra, in quanto i vincoli, differenziabili anche in base alla forma giuridica adottata dall’impresa, saranno definiti in analogia con quanto disposto per le cooperative a mutualità prevalente. Contro replica: ma allora non si capisce perché non si possa applicare l’identico regime previsto per la mutualità prevalente a tutte le forme giuridiche, senza differenziazioni. Se, ad esempio, si adotta la s.p.a. per fare impresa sociale, dovrebbe essere prevista anche qui la riserva indivisibile, il socio sovventore, eccetera.
L’impatto sociale va misurato, ma non è l’obiettivo – Nel disegno di legge delega si definisce poi l’impresa sociale quale “impresa privata con finalità d’interesse generale, avente come proprio obiettivo primario la realizzazione di impatti sociali positivi conseguiti mediante la produzione o lo scambio di beni o servizi di utilità sociale”. Ma cosa significa avere come obiettivo la realizzazione di impatti sociali positivi? Se vuol dire che si esercita una responsabilità sociale, allora la grandissima parte delle imprese possono vantarla, pur con intensità diverse. Se invece si intende che le finalità solidaristiche e civiche vanno misurate e che non basta enunciarle, ciò è sacrosanto ma a valutarle saranno i clienti o i committenti. E se è difficile la valutazione, come nel caso di interventi sociali, ben vengano anche strumenti di misurazione, senza tuttavia pensare che siano l’obiettivo.
Conclusioni – Il ddl delega innova profondamente sul tema dell’impresa sociale, ma è evidente come tali flessibilità e vantaggi vadano accompagnati da una rigorosa finalizzazione solidaristica e civica, da misurare nella sua efficacia, che deve assicurare anche un limite nella remunerazione del capitale sociale. Diversamente si rischia di snaturare il terzo settore e di aprire a comportamenti opportunistici. La proposta è quella di adottare un vincolo nonprofit stringente anche se non assoluto, identico e quindi semplificato per chiunque operi nella produzione e nello scambio di beni e servizi di utilità sociale con pubblico beneficio. Se tuttavia non si condivide il punto – che peraltro appare dirimente per fare dei diversi componenti del terzo settore un tutt’uno – almeno si converrà che, diversamente, non possa rimanere il previsto regime di vantaggio fiscale e di incentivi.
di Stefano Lepri, vicepresidente Pd al Senato e relatore del disegno di legge