E' il dato che emerge dal rapporto dell'Osservatorio sui cronisti minacciati in Italia. Dal direttore di Panorama Mulè a tanti redattori di giornali locali e online. Un fenomeno affrontato dalla proposta di legge sulla diffamazione all'esame del Parlamento. Che elimina la pena detentiva ma prevede pesanti sanzioni economiche. Protesta il presidente dell'Ordine Jacopino: "Una nuova forma di manette"
C’è il caso del direttore de Il Giornale Alessandro Sallusti, condannato in via definitiva nel 2012 a 14 mesi di carcere per diffamazione. E quello, forse meno conosciuto, di Francesco Cangemi, direttore del mensile Dibattito News ed ex sindaco di Reggio Calabria, finito agli arresti a 79 anni per 46 giorni (tra carcere e domiciliari) nel 2013. Entrambi avevano iniziato a scontare la pena. Poi Sallusti fu graziato dal capo dello Stato Giorgio Napolitano e Cangemi rimesso in libertà per evidenti ragioni di età oltre che di salute. Ecco due casi compresi nel dossier sulle condanne al carcere dei cronisti messo a punto da “Ossigeno per l’informazione”, l’Osservatorio sui giornalisti minacciati in Italia promosso dalla Fnsi e dall’Ordine professionale, i cui contenuti sono stati illustrati nel corso di una conferenza stampa alla Camera dei deputati.
PENNE IN GABBIA Sono almeno 30, da ottobre 2011 a maggio 2015, i giornalisti, fotoreporter e blogger condannati al carcere per un totale complessivo di 17 anni di reclusione. L’elenco comprende per esempio le due condanne ad 8 mesi inflitte al direttore di Panorama, Giorgio Mulè, a distanza di due mesi l’una dall’altra. La prima il 23 maggio, costata anche un anno di reclusione ai cronisti Andrea Marcenaro (pena non sospesa) e Riccardo Arena (pena sospesa), corrispondente da Palermo del settimanale e presidente dell’Ordine dei giornalisti della Sicilia. La seconda, poco più di due mesi dopo, sempre per omesso controllo (pena non sospesa) per un articolo firmato da Maurizio Tortorella (sanzionato con una multa di 800 euro). Il 10 maggio 2011 il Tribunale di Chieti ha condannato i giornalisti Walter Nerone e Claudio Lattanzio de Il Centro di Pescara a un anno di carcere senza condizionale per aver diffamato l’ex sindaco di Sulmona. Mentre 8 mesi sono stati inflitti per omesso controllo al direttore dell’epoca Luigi Vicinanza, oggi alla guida de L’Espresso. Il 6 luglio 2012 il tribunale di Bolzano ha condannato a 4 mesi di reclusione Orfeo Donatini e Tiziano Marson, redattore e direttore dell’Alto Adige, che erano stati querelati da un consigliere provinciale per una articolo pubblicato nel 2008. E’ del 4 ottobre 2013, invece, la notizia della condanna a un anno e 4 mesi di carcere di Claudio del Frate, giornalista del Corriere della Sera, per un articolo del 2006 apparso a sua firma su Varesenews.it. I giudici di appello hanno però ribaltato la sentenza di primo grado assolvendolo perché il fatto non costituisce reato. E’ andata peggio ad Antonio Cipriani, ex direttore delle 15 testate free press E-Polis: ha dovuto affrontare 34 processi e ora rischia di dover scontare i 5 mesi di reclusione ai quali lo ha condannato il Tribunale di Oristano il 2 luglio 2014 per un articolo del 2007 pubblicato su Il Giornale di Sardegna. Sono invece 7 i mesi di carcere comminati al cronista de Il Giornale Luca Fazzo per aver definito, in un articolo di giudiziaria, il querelante «accanito cocainomane» nell’ambito di un’inchiesta sullo spaccio e il consumo di droghe in alcune discoteche del centro di Milano.
NUOVE MANETTE Ma le cifre, al di là dei casi documentati sul sito internet di Ossigeno, potrebbero essere ben più consistenti. «Le sentenze che prevedono pene carcerarie sono molto numerose, almeno dieci volte più numerose», spiega Alberto Spampinato, direttore dell’Osservatorio. «Il nostro dato è parziale perché si basa sui pochi casi che riusciamo a documentare – prosegue – Il ministero della Giustizia dispone dei dati completi e farebbe bene a pubblicarli, anche nell’interesse dei parlamentari che discutono una modifica legislativa su questo punto senza sapere cosa accade veramente ogni giorno nelle redazioni dei giornali e nei tribunali» Il riferimento è alla recente riforma della diffamazione, appena licenziata da Montecitorio ed ora tornata al Senato per la terza lettura che ha eliminato la pena detentiva per il reato di diffamazione introducendo, però, sanzioni pecuniarie da 5.000 a 50.000 euro. Ma tolto il carcere la questione delle sanzioni troppo pesanti per i cronisti è davvero risolta? «Condannare un piccolo giornale ad una multa di 50.000 euro è come condannarlo alla chiusura – spiega Giuseppe Mennella, segretario di Ossigeno per l’informazione – Il punto è che questa legge non soddisfa le richieste che arrivano dall’Europa: la condanna non può essere sproporzionata rispetto alla capacità reddituale di editori e giornalisti». Analisi condivisa anche dal presidente dell’Ordine dei giornalisti, Enzo Jacopino. «Oggi gli editori, grazie ad un accordo scellerato, possono pagare un collaboratore 4.920 euro lordi l’anno – accusa – vale a dire 80 euro in meno della sanzione minima prevista a carico del giornalista condannato per diffamazione. In pratica è stato eliminato il carcere ma è stata introdotta una nuova forma di manette allinformazione».
RETTIFICA MUTA Poi c’è la questione della rettifica. «Quando fu introdotta si previde anche la possibilità di dare a spazio ad eventuali repliche e risposte per arricchire il dibattito intorno all’articolo interessato – ricorda Mennella –. Con la riforma, che impone di pubblicarla senza replica e senza commento, non solo perde la sua funzione originaria ma potrebbe non essere neppure sufficiente ad evitare il risarcimento per danno ingiusto». In base alla riforma all’esame di Palazzo Madama, se fatta nel rispetto delle forme e dei modi previsti dalla nuova normativa, la rettifica esclude la punibilità del giornalista in sede penale. E in sede civile? «Non c’è dubbio che la rettifica, fatta nel rispetto dei criteri prescritti dalla proposta all’esame del Parlamento, metta al riparo il giornalista tanto dalle conseguenze penali quanto da eventuali pretese risarcitorie in sede civile conseguenti dalla diffamazione», chiarisce l’avvocato Caterina Malavenda. «Tuttavia, sul piano civile, potrebbe non bastare se la condotta dovesse andare oltre la diffamazione – aggiunge – ledendo cioè altri beni, come ad esempio l’immagine e l’identità della persona». Analisi in linea con quella dell’avvocato Lucio Giacomardo, docente alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Federico II di Napoli. «La rettifica fatta nel puntuale rispetto dei criteri indicati nella proposta di legge ritengo possa escludere non solo la punibilità in sede penale ma anche il riconoscimento di pretese risarcitorie in sede civile – spiega –. Diversamente, però, se il diffamato dimostra di aver subito un danno ulteriore, di tipo patrimoniale, rispetto alla lesione della reputazione e dell’onore la rettifica potrebbe non bastare».
Twitter: @Antonio_Pitoni