Aprire la porta a chi è stato costretto a fuggire dal proprio Paese, offrirgli un letto, un posto dove stare e una famiglia con cui sedersi a tavola ogni giorno. Mentre l’Europa discute e si divide sui migranti, sulle quote obbligatorie e sulla chiusura delle frontiere, c’è chi l’accoglienza la fa direttamente a casa propria, trasformando la quotidianità in un esperimento di solidarietà e integrazione.
Succede a Parma, dove una decina di nuclei famigliari ospiteranno per nove mesi nelle loro abitazioni altrettanti rifugiati. Il progetto sperimentale “Rifugiati in famiglia”, ispirato a esperienze simili portate avanti nel Comune di Torino e dalla Caritas attraverso le diocesi, è partito a fine maggio con la collaborazione dei Comuni di Parma e Fidenza, e coinvolgerà alcune delle oltre 150 persone seguite dal Ciac Centro immigrazione, asilo e cooperazione all’interno del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar).
In altre parole, i migranti che saranno “adottati” dai parmigiani hanno già ricevuto una prima accoglienza in Italia e ottenuto lo status di rifugiato. Si tratta perlopiù di giovani dai 20 ai 30 anni provenienti dall’Africa subsahariana, dall’Afghanistan, dalla zona curda e dall’Iraq, che hanno lasciato alle spalle le proprie vite per scampare a guerre, persecuzioni o violazioni di diritti umani, e che ora avranno di nuovo una vera casa in cui vivere.
“Lavoriamo da tanto a questa iniziativa e siamo molto soddisfatti della risposta che abbiamo avuto dalle famiglie. In questo clima di ostilità verso gli immigrati, in tanti si sono resi disponibili a partecipare e a fare qualcosa in prima persona, forse anche come risposta a quello che sta succedendo – spiega la coordinatrice Chiara Marchetti – La nostra aspettativa è che queste persone, che provengono da percorsi molto difficili con situazioni spesso drammatiche, riescano a ricostruire attraverso delle relazioni un percorso identitario e di autonomia”.
Per selezionare famiglie e rifugiati sono stati fatti colloqui e incontri, discussioni e valutazioni, che continuano anche per tutti i nove mesi di ospitalità. Nel 2015 sono stati avviati dieci percorsi, altrettanti dovrebbero partire nel 2016 e se la sperimentazione avrà successo, il sistema parmigiano potrebbe diventare una nuova modalità ordinaria di accoglienza. Ai nuclei ospitanti spetta un rimborso di 300 euro mensili per le spese e il rispetto degli accordi presi con il migrante e con il Ciac, che prevedono per esempio l’equilibrio tra integrazione e autonomia, la relazione ma anche la reciproca indipendenza.
“Il primo periodo di adattamento non è facile – racconta Marchetti – e anche per questo nell’affidare le persone analizziamo tutti gli aspetti possibili e le esigenze. In alcuni casi, anche se c’è disponibilità, per motivi logistici o per altre incompatibilità non tutte le situazioni sono favorevoli a questo tipo di proposta”. Ospitare qualcuno che proviene da lontano, che ha una religione o abitudini diverse, significa venirsi incontro, mediare su orari e modi di comportarsi, come in una vera convivenza in cui la persona ospitata è indipendente, ma diventa comunque parte di una microcomunità. Si punta sulla relazione, sull’investimento emotivo, che per chi è fuggito dal proprio Paese a volte diventa una riscoperta.
“Nei primi giorni un ragazzo ospite era rincasato più tardi del solito e non rispondeva al telefono, la famiglia che lo aveva accolto era in ansia – racconta Marchetti – Quando con il coordinamento abbiamo discusso con loro di questo episodio, il ragazzo ha ammesso che era la prima volta da anni che qualcuno si preoccupava per lui”. Come in una famiglia, senza che però questa forma di convivenza si trasformi in un carico più impegnativo a tempo indeterminato. “Il progetto di accoglienza è stato pensato per una durata di circa nove mesi anche per questo – aggiunge la coordinatrice – È il tempo che reputiamo sufficiente per permettere al rifugiato di costruirsi una propria autonomia e di ricominciare a ritrovare la normalità”.