Capita ogni tanto di recensire volumi che sarebbero mirati a un pubblico di accademici e invece riescono a comunicare concetti complessi ma godibili da tutti gli amanti della lettura. È il caso di ‘Dimenticare Pasolini. Intellettuali e impegno nell’Italia contemporanea’, di Pierpaolo Antonello (Mimesis, 2012) che in realtà dedica a Pasolini un capitolo monografico su quattro e spazia in ragionamenti di grande portata, validi per capire meglio la società italiana degli ultimi 80 anni.
Diciamo subito che è insita nel titolo una piccola provocazione: Antonello, professore di Italian Studies alla Università di Cambridge e uno dei “pesi massimi” della cultura italiana nel mondo, non sminuisce l’importanza che Pasolini ha avuto nel Novecento. Al contrario, l’autore la rafforza combattendo il mito che si è creato intorno alla figura del poeta friulano. Un mito alimentato da registi, sceneggiatori, scrittori, critici, giornalisti, avversari e amici di Pasolini in particolare dopo la sua morte.
Una sorta di beatificazione laica, sviluppatasi spesso a scapito dei testi e delle opere di Pasolini, e capitata eminentemente a lui, ma imposta anche ad altri grandi nomi della cultura italiana. Come scrive acutamente Antonello:
“Se gli intellettuali storicamente hanno assorbito la funzione dei chierici, in un contesto come quello italiano, significherebbe finalmente approdare a una sorta di riforma “protestante”, con sempre meno cardinali e vescovi e sempre più curati di campagna”. (13).
In questo senso, Pasolini, da cadavere, è diventato tutto: precursore visionario dei mali della modernità, e cantore della ruralità contadina; pensatore gramsciano e marxista e primo alfiere della difesa dei valori tradizionali contrario ai diritti civili, all’aborto, al divorzio; portavoce del sottoproletariato urbano e suo stesso sfruttatore sessuale; primo accusatore dei mali della comunicazione moderna televisiva e ospite quasi fisso dei principali salotti culturali televisivi. Un Pasolini papa della cultura italiana, insomma, ma anche un anti-papa, davvero distante da quella figura umile e utile che sarebbe il “curato di campagna” di cui parla metaforicamente Antonello.
Gli altri tre capitoli del libro si soffermano sul significato di “impegno” e su come si è evoluto il concetto di cultura in Italia nell’abbraccio con le masse. Antonello ha lo spessore e il coraggio intellettuale di andare a sfatare alcuni miti della vulgata culturale italica, specialmente di un certo tipo di sinistra puzzettara e conformista, che questo scritto smonta come una docile casetta di Lego. Partendo dunque da una teoria dello storico cattolico Pietro Scoppola, che nelle sue lezioni alla Sapienza ha sempre individuato non nell’egemonia berlusconiana sulla televisione, bensì negli effetti del neocapitalismo italiano il venir meno di alcuni valori base della società cattolica italiana, Antonello scrive:
“Programmi televisivi come X Factor, L’isola dei famosi, C’è posta per te o Il Grande fratello e altre forme di intrattenimento popolare considerate trash [sono] presi ad emblema dello stato della intera cultura italiana, come se questi programmi non fossero dei format internazionali […], [in] contesti culturali che vengono spesso presi a modello comparativo per contestare il nostro presunto imbarbarimento culturale […]” (76).
Antonello non nega che Berlusconi abbia tratto beneficio dalla situazione anomala di duopolio/monopolio del sistema televisivo, ma ricorda come la televisione sia da tempo un medium vecchio e poco utilizzato dai giovani per informarsi. E proprio le nuove generazioni, e i loro nuovi strumenti culturali (dai videogiochi ai social network) sono al centro dell’analisi, o faremmo meglio a dire della difesa, che Antonello produce in queste pagine:
“Serve sgombrare il campo da uno dei luoghi comuni più triti e logori che circolano nel discorso culturale italiano, ovvero la migliore formazione e capacità intellettuale dei padri, rispetto al “deserto” culturale in cui vivono oggi i loro figli […]. Prese nella loro media, le nuove generazione sono assolutamente migliori delle precedenti. Sono più informate, più intelligenti, più partecipi, più mobili, più tolleranti, meno conflittuali di quelle dei padri. La democratizzazione dell’istruzione avrà eliminato anche le punte di eccellenza (fatto tutto da verificare, […]) ma ha innalzato la media culturale generale”.
La difesa di Antonello si basa sulla citazione di dati statistici oggettivi, elemento che, in sé, differenzia questo testo di Italian Studies dalla media della sua categoria:
“Nei “gloriosi” anni ’50, quando operavano i vari Vittorini, Calvino o Pasolini, solo il 10% dei giovani italiani era iscritto a un liceo, nel 1995 il 67% conseguiva un diploma di maturità. Allo stesso modo, nel 1965 solo il 16% della popolazione italiana leggeva almeno un libro all’anno contro il 45% attuale, con una crescita costante dei cosiddetti lettori forti”.
Ci sarebbe molto altro da dire riguardo questo piccolo capolavoro. Leggetelo, soprattutto se non vi occupate di cultura umanistica. Al di là di una leggera difficoltà di lessico erudito, cui Antonello proprio non può rinunciare, queste pagine sono quanto di più prezioso è in circolazione sui concetti di cultura di massa italiana.