La poderosa crescita cinese sembra svanita. L'economia è rimasta intrappolata in una burocrazia perversa e non di rado corrotta e il debito di imprese, governo e famiglie è passato tra 2007 e 2014 dal 153% al 300% del Pil. Ora, dopo 12 mesi di boom, l'indice azionario di Shanghai sta crollando e i risparmi degli investitori si polverizzano
Le farfalle che con un battito d’ali a Pechino possono provocare la tempesta di neve a New York (e nel resto del globo) svolazzano nella Borsa di Shanghai. Nel ruolo di crisalidi si distinguono le azioni di grandi società e banche, spesso semi-pubbliche, i cui prezzi sono schizzati in alto nei mesi passati, rescindendo il legame con la crescita economica e, di conseguenza, l’ancoraggio alla realtà. Le bolle finanziarie per gonfiarsi hanno bisogno di due elementi: il debito e la dabbenaggine euforica. Di entrambi la Cina ha accumulato notevoli quantità. In un Paese dove la gente adora il gioco d’azzardo, mentre le dinamiche finanziarie costituiscono un mistero glorioso, la dabbenaggine è la cifra dell’investitore medio.
Il debito invece ha bisogno della compiacenza, e spesso della fattiva complicità dei regolatori, unita al benestare politico. La poderosa crescita cinese a due cifre da un paio di anni si è afflosciata. L’economia è rimasta intrappolata in uno Stige social-capitalista, zavorrata dai conglomerati pubblici inefficienti, mentre alle più dinamiche piccole e medie imprese private sono centellinate risorse e capitali. A questo si aggiunge il peso di una burocrazia (non di rado corrotta) che per quanto evoluta rispetto agli standard sovietici, rimane occhiuta e perversa. Occorrerebbe ridisegnare un sistema più snello, libero ed efficiente depurato dall’eredità del collettivismo e affrancato dalle dubbie politiche, affinché 35 anni di transizione dalla miseria a un’economia da 10 mila miliardi di dollari non deraglino verso il disastro.
Debito totale al 300% del Pil. E a finanziarlo sono anche le banche ombra – Purtroppo i riti gradualisti del potere comunista non consentono nette discontinuità col passato. Quindi in attesa di regolare i conti tra le fazioni del Partito e sedare gli attriti tra Pechino e valvassori provinciali, il governo cinese (come del resto gli omologhi occidentali e giapponese) è ricorso alla droga monetaria per imprimere un impulso alla crescita. La Banca centrale – che ha un controllo in teoria pervasivo sugli intermediari finanziari (il governo cinese mantiene il controllo effettivo su oltre il 95% degli attivi bancari) – ha lasciato galoppare gli aggregati creditizi. Secondo il Mc Kinsey Global Institute, il debito totale (di imprese, governo e famiglie) dal 153% del Pil nel 2007 è quasi raddoppiato fino a sfiorare il 300% nel 2014. Allo stesso tempo le autorità hanno chiuso gli occhi sulle prodezze di improbabili società finanziarie (il cosiddetto sistema bancario ombra) che allettavano i piccoli risparmiatori con promesse da Campo dei Miracoli. Risultato: il 30% del debito totale è stato finanziato da queste banche ombra (con esposizioni mostruose nell’immobiliare) e pochi rivedranno il loro capitale intatto. Infine, gli investitori hanno ottenuto prestiti generosi per acquistare azioni.
Dal 12 giugno il boom si è invertito – Risultato: il totale dei margin loans è quadruplicato in un anno, superando i 350 miliardi di dollari pari al 4,4% della capitalizzazione di borsa e facendo aumentare del 150% in 12 mesi l’indice azionario di Shanghai. Poi, come il volo di Icaro, dal 12 giugno scorso i corsi azionari hanno inesorabilmente invertito la traiettoria. In tale marasma (stigmatizzato in un recente rapporto della Banca Mondiale) la Banca centrale, per attenuare la botta, ha abbassato il tasso di interesse e i coefficienti di riserva obbligatoria, al contempo concedendo ampia clemenza sulle margin call. Meri palliativi, perché la leva finanziaria, quando la bolla si gonfia, dispiega i suoi effetti con gradualità. Dopo lo scoppio invece obbliga gli investitori esposti a vendite precipitose, che polverizzano i risparmi: il totale dei margin loans in Cina è sceso di 46 miliardi di dollari in due settimane. Dal 12 giugno in tre settimane consecutive di tonfi la Borsa di Shanghai ha perso circa il 30%.
Le misure straordinarie varate dal governo non sono sufficienti – A quel punto, e siamo alla cronaca dello scorso weekend, gli alti papaveri hanno avvertito l’onda di panico e varato una raffica di misure straordinarie: autorizzazione per i fondi pensione a investire in azioni, pressioni psicologiche contro vendite allo scoperto, aumento dei costi per i venditori di futures sugli indici, sospensione delle nuove quotazioni in Borsa, impegni del fondo sovrano cinese, liquidità a go-go. Addirittura 21 grandi brokers cinesi hanno messo sul piatto quasi 20 miliardi di dollari per sostenere i prezzi azionari riportando alla memoria l’analoga iniziativa presa dai loro colleghi americani alla vigilia del crac del ‘29. Gli scambi giornalieri talora ammontano a 100 miliardi di dollari non appare una mossa risolutiva. (…)
Nel migliore dei casi, la bolla offusca l’aura di competenza della leadership e mette a repentaglio il processo di transizione verso un’economia di mercato basata su servizi e consumi, con una finanza solida integrata nel sistema mondiale e lo yuan a sostegno dell’architettura monetaria internazionale. Nel peggiore dei casi, i piedi di argilla del colosso cinese rischiano di farci ripiombare in un incubo Lehman elevato al cubo.
da Il Fatto Quotidiano dell’8 luglio 2015