All’inizio del 2011, poco prima di partire per un tour e alle soglie della registrazione di un nuovo album che sarebbe stato il successore di ‘Back In Gum Palace’, la band romana Mammooth perde in un incidente stradale il bassista e polistrumentista Joy Angelini. È un colpo mortale per il gruppo, che decide di fermarsi e accantonare quei sogni di rock ‘n roll a lungo accarezzati. “Non eravamo più sicuri di voler fare musica – racconta il frontman Riccardo Bertini – ci sentivamo svuotati. In seguito, per motivi di lavoro, anche il nostro chitarrista è stato costretto a mollare. Ma con Fabio, il tastierista, non ci siamo dati per vinti e, in maniera ostinata, abbiamo provato a registrare un nuovo disco. È stato un processo lungo e doloroso che però non ci ha mai convinto fino in fondo. Sentivamo che stavamo facendo quel lavoro quasi per ‘espiare’ e per rendere omaggio al nostro amico, ma a livello di sound tutto il disco ne ha risentito sia nei testi, scurissimi, sia nella musica. Ci trovavamo a un bivio: far uscire qualcosa che non ci convinceva o cambiare tutto”. Hanno optato per la seconda possibilità: “Avevo cominciato a scrivere con un’amica compositrice, Cristina Carlini, alcuni brani dalla forte impronta elettronica molto più gioiosi e pieni di vita come ‘Rain On Me’. Da lì, la decisione di portare quei pezzi nel progetto Mammooth è stata quasi inevitabile. Con Fabio abbiamo ricominciato a scrivere e produrre materiale più in linea con questo nuovo mood e sono nate le 9 tracce di ‘Eat Me, Drink Me’. Le emozioni reali, raccontate, provate sulla pelle sono sicuramente una via, una porta. ‘Eat Me, Drink Me’ è la nostra personale medicina da poter ‘mangiare’ e ‘bere’”. Un disco che segna un punto di svolta nella produzione della band romana, il perfetto incastro tra analogico e digitale che da sempre sognavano di fare.
Riccardo mi parli di questo nuovo disco, come è nato, da cosa è stato ispirato e come mai la scelta di questo titolo, peraltro identico a uno di Marilyn Manson?
‘Eat me, drink me’ è la nuova luminosa anima dei Mammooth: se c’è un concept di fondo a questo disco è la grande difficoltà dei rapporti sociali e intimi sempre più mediati dalla tecnologia e sempre meno diretti. Cosa ci sta provocando tutto questo e soprattutto come possiamo uscirne? Questo album è la nostra risposta. Non nel senso che la musica possa dare risposte a questioni di tale complessità. Ma le emozioni reali, raccontate, provate sulla pelle sono sicuramente una via, una porta. Il fatto che Maryilyn Manson abbia usato lo stesso titolo è una cosa di cui ci siamo accorti troppo tardi. Diciamo che non siamo proprio dei fan del soggetto in questione, anche se non ci dispiace affatto.
Di cosa parlano le canzoni? C’è un filo che le accomuna?
I rapporti personali sono alla base di quasi tutti i testi delle canzoni: questa volta in un paio di pezzi c’è anche lo zampino di Cristina che ha una vena più eterea e sognante. Sono, in ogni caso, storie di vita vissuta. Solo ‘Run Away’ e ‘Girl In The Well’ escono un po’ fuori da questo mondo. La prima è un surreale incontro tra la figura di una suicide girl e un ciclista pazzo. La seconda è una murder ballad elettronica la cui ispirazione mi è venuta proprio dal disco di Nick Cave.
È un disco che segna un punto di svolta nella vostra produzione.
Esatto. La svolta sta nel fatto che mentre i nostri lavori precedenti usavano la classica sezione ritmica del rock formata da basso e batteria, in questo album abbiamo usato solamente loops, percussioni e beats mutuati dalla techno, dalla house e in generale dalla musica dance. Si potrebbe definire ancora electro-rock, ma non lo è più. È finalmente il perfetto incastro tra analogico e digitale che sognavamo.
Cosa puoi dirmi sulla copertina?
La cover è frutto del lavoro grafico di Riccardo e racchiude in sé un po’ il concept del disco. Sono due mani che si tengono strette l’una all’altra. Il contatto fisico ci salverà!
Cosa vi aspettate da questo nuovo album?
Che finalmente getti luce su un lavoro più che decennale fatto di rischi e continue scommesse e rilanci.