L ’abbiamo scoperto con i recenti fatti di Parigi: la strage alla redazione del giornale satirico Charlie Hebdo è stata organizzata ed eseguita da soggetti “apparentemente normali e integrati nella società francese”. Pare che gli assassini si siano avvicinati al fondamentalismo islamico durante un periodo di detenzione.
Il carcere è terreno fertile per repentine conversioni a nuovi dei, ma anche a nuovi settori del crimine. Dentro alle mura tutto è sublimazione. Convivenze forzate e condizioni psicologiche instabili, in un contesto reso difficile anche dalla babele umana rappresentata da 44 etnie, sono le condizioni ideali che consentono al germe del male di mettere radici. Il fascino del potere abbaglia facilmente i giovani, magari alla prima esperienza di carcere, che vivono una sorta di full immersion del crimine.
I soggetti più deboli sono proprio i giovani, carichi di rabbia e vuoti di speranza, spesso senza punti di riferimento dentro e fuori dal carcere. C’è il rischio – molto concreto – che il carcere diventi un Master per futuri foreign fighters del fondamentalismo jihadista, che andranno ad alimentare le fila del terrorismo.
Più che una questione di fede, quella dei neo-convertiti appare un urlo di rabbia e protesta; vivono la loro scelta in maniera radicale e totalizzante, al punto che nemmeno gli stessi detenuti islamici riescono ad avere un dialogo con loro. Qualche volta, per avere un terrorista in meno basterebbe qualche colloquio in più con la psicologa e si attenuerebbero i problemi esistenziali, ma per farlo occorrerebbe molta più sensibilità, da parte di tutti.