Varoufakis è quello che tiene la camicia fuori dai pantaloni, studia teoria dei giochi e gira in moto (vuoi mettere i nostri che circolano su auto blu, aerei blu ed elicotteri blu senza mai toccare terra?). Tsipras è il magliaro piacione e inaffidabile che rimpiange o fa rimpiangere Stalin, difende le pensioni d’oro e la temibile corsa agli armamenti greca, e in Europa fa il gioco delle tre carte. L’idea che questi signori siano stati democraticamente eletti da un popolo che le ha viste e provate tutte (la dittatura dei colonnelli, i socialisti, i conservatori, i centristi, i tecnici) non sfiora più nessuno, in un paese – il nostro – piuttosto disabituato alla democrazia.
Ma ciò che più sfugge ai nostri trincia-giudizi in casa d’altri è la serietà, la dignità dei nuovi politici di Atene. Che magari sbagliano ricetta economica (ma vai a sapere qual è quella giusta: hanno fallito tutte, ma proprio tutte), però hanno il sacrosanto diritto di essere messi alla prova: perché, nel disastro greco, non hanno alcuna colpa, non avendo mai governato prima. Chi dà loro lezioni da Bruxelles o da Berlino ha colpe molto più grandi di loro, visto che l’austerità ha peggiorato la vita e l’economia della Grecia, esattamente come quella di quasi tutto il resto dell’Eurozona.
Qui non si tratta di buonismo – il mantra prêt-à-porter di ogni talk show – ma di buonsenso. Se l’austerità fine a se stessa ha prodotto in pochi anni in Europa 23 milioni di disoccupati in più rispetto a prima, è il pragmatismo a imporre di cambiare registro. È vero, la Grecia entrò in Europa truccando i suoi bilanci, e le autorità comunitarie lo sapevano benissimo. È vero, la Grecia è stata malgovernata per decenni, con una serie di scelte scriteriate che l’han fatta vivere al di sopra delle sue possibilità. Ed è vero quel che dice la Merkel (persona seria anche lei, pur con i suoi errori in politica estera, ma non interna: magari i tedeschi ce la prestassero per qualche anno): le formiche d’Europa non possono pagare le serenate della cicala.
Ma ciò che chiede la Grecia – al di là di certe pretese inaccettabili – è l’ossigeno e il tempo per rimettersi in sesto, con il suo nuovo governo onesto e serio. Ci si può fidare sulla parola? No, occorrono controlli. Ciò che invece è inaccettabile, e ha fatto stravincere il No, è che le autorità europee abbiano usato la crisi greca prima per dettare ad Atene le riforme da fare, mettendo in mora il governo democraticamente eletto; e poi per provare a rovesciare il governo democraticamente eletto per sostituirlo con un pateracchio di larghe intese imposto dall’alto e da fuori, secondo lo schema sperimentato in Italia e nella stessa Grecia nel 2011. Gli Stati Ue hanno sottoscritto degli accordi e chi non li condivide può, anzi ormai deve battersi per modificarli: ma, finché esistono, deve rispettarli. Si tratta di parametri finanziari fissati – almeno a parole – a beneficio dei popoli: se però sono i popoli a vivere (anzi, a morire) a beneficio dei parametri, questi vanno cambiati. Ma per farlo occorre l’accordo della maggioranza degli Stati, che al momento non c’è. Anche perché chi vi avrebbe più interesse, tipo Renzi, se ne sta sotto la sottana di “Angela”.
La Grecia invece ha detto la sua: se avesse votato pro o contro l’euro, avrebbe vinto il Sì. Invece ha votato su una proposta giugulatoria per il popolo e suicida per i creditori (il creditore che affama il debitore è un cretino, perché non rivedrà mai più i suoi soldi). E ha vinto il No. Se persino il Fmi giudica plausibile una ristrutturazione, cioè un taglio, del debito greco, la strada potrebbe essere una conferenza internazionale che ridiscuta tutti i debiti pubblici: e conceda a chi ce l’ha più grosso (vedi il nostro, che continua allegramente a crescere) di restituire solo il giusto.
Ciascuno indichi il percorso che intende seguire: i governi di destra indicheranno politiche di destra, quelli di sinistra politiche di sinistra. La scelta di chi debba fare i sacrifici non spetta a nessuna Troika, ma ai governi nazionali e ai loro elettori. Le autorità europee devono fissare l’obiettivo: quant’è il conto e quando ragionevolmente va pagato. Ma chi lo deve pagare lo decidono i cittadini tramite i loro parlamenti e governi. Si chiama democrazia e, in attesa di inventare qualcosa di meglio, è bene tenercela stretta.
In fondo è questo il messaggio che è uscito domenica dalle urne: diteci il quanto, ma il come lo decidiamo noi. Somiglia molto a quello lanciato dagli elettori italiani che nel 2013 punirono i partiti delle larghe intese e premiarono il M5S che, come Syriza, non aveva mai governato. Com’è finita lo sappiamo: l’eterno Gattopardo ha finto di cambiare tutto per non cambiare nulla, ma al prossimo giro potrebbe ritrovarsi ancor più spelacchiato di oggi. Specialmente se continuerà a irridere al governo greco fingendo di non capire cos’è accaduto ad Atene. E a leccare i tacchi alla Merkel, dimenticando che dopo la Grecia, buoni penultimi, veniamo noi. O a farsi fotografare con Orfini alla Playstation. O a tenere lezioni di tiki-taka contro i gufi. E meno male che il pagliaccio è Tsipras.
Il Fatto Quotidiano, 8 Luglio 2015