Larry Gagosian, imperatore di Capri per una notte. Il gallerista più potente del mondo, il pioniere dell’arte contemporanea e delle sue quotazione stellari, ha scelto una location spettacolare per i suoi 60 invitati, non uno di più, tra i più famosi collezionisti del mondo. E non deve essere stato facile per mr. Gagosian farsi dare Villa Malaparte, magnifico edificio degli anni ’30 incastonato sul promontorio roccioso di Punta di Masullo, che lo scrittore Curzio Malaparte lasciò, per dispetto agli eredi, al governo cinese di Mao. Che lo fece andare in malora. Ma alla fine gli eredi, con acrobazie burocratiche, l’hanno spuntata e adesso lo affittano solo a chi gli garba, no a matrimonioni, comunioni o ricevimenti in stile cafonal. Sulla magnifica scalinata, un’avvenente Brigitte Bardot, scalza, faceva cadere ai piedi di Michel Piccoli il suo accappatoio giallo per buttarsi nelle acque cristalline. Era il set naturale del cult movie “Il Disprezzo” di Jean Luc Godard. La scalinata è la stessa, illuminata a lume di torce, sul tetto/terrazza un quartetto di archi avvolge di note la Baia di Matermania, un lungo tavolo allestito per i 60 placeé, guarda lo scoglio del Lumacone, la luna piena entra nel bicchiere con le bollicine mentre si gozzoviglia a carpaccio di pezzogna. Negli austeri saloni, volutamente lasciati un po’ délabré ( grandi interventi di lifting avrebbero snaturato il luogo) sono appesi i disegni di Twombly, artista americano naturalizzato romano, in mostra solo per una notte. A fine serata gli ospiti se ne vanno come sono arrivati, via mare, lasciando una scia luminosa che entra in mezzo ai faraglioni.
E’ grazie a Andy se oggi scrivo su ilfattoquotidiano.it. Le cose sono andate così. New York, vent’anni, già con una fissazione, quella di fare la giornalista. Ma da dove comincio? Incontro Gianni Perrelli, allora inviato dell’Europeo, mi mette a cavallo in minigonna sfrangiata da cow girl a Central Park. Sarebbe stato il servizio di copertina: “Come cambia la capitale del mondo”. Azzardo: “Allora ti intervisto Andy Warhol?”. “Ma va’”, mi dice. Rilancio: “Vedrai che ci riesco”. Chiamo Mario D’Urso, nel suo carnet aveva i numeri di telefono di Kissinger, di Imelda Marcos e di Elizabeth d’Inghilterra. Ante litteram aveva già una sua rete globale di connessioni. Per lui telefonare ad Andy è come per me ordinare una cassetta d’acqua minerale. E’ lui stesso ad accompagnarmi nel loft della sua Factory, una “locomotiva sociale”, esploratrice della controcultura, capace di captare i fenomeni emergenti e trasformarli in mode. E invece mi dice: “Contrariamente a quanto si crede sono io che seguo le correnti”. Allora non esistevano i selfie, Mario ci immortala in una foto. Andy timidamente mi porge una rosa.
Per amor del vero non mi andò bene con tutti, provai anche a scambiare due parole con Truman Capote, ma dal suo osservatorio privilegiato che era lo Studio 54, madre di tutte le discoteche, (ndr. tutto documentato sul servizio del settimanale L’Europeo del 19 aprile 1982) mi rispose che non era nel mood.
A un mese dalla scomparsa improvvisa di Mario D’Urso, che al Senato portò un tocco d’eleganza fatta di bretelle rosse e di cachecol, spente le litanie mediatiche, anche io lo voglio ricordare attraverso un racconto di Pilar Crespi, intramontabile icona di bellezza e di stile. Per il primo ricevimento dell’ambasciatrice americana a Roma arrivò a casa D’Urso l’elegante cartoncino per invito a cena alle 19.30. Mario strabuzzò gli occhi, si presentò con mezz’ora di ritardo e la redarguì con il suo aplomb misto a sfottò: “My lady a Roma non si invita all’orario delle galline”. Divenne poi il suo più fidato consigliere. Ciao Mario. Ci manchi, eccome!
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