Il capo economista uscente dell'Fmi, Olivier Blanchard, ha avvertito: “Dobbiamo essere pronti a vedere altri episodi del genere". Negli ultimi anni in Europa l’aumento del debito in rapporto al Pil è stata una regola con poche eccezioni. E l'Italia, che ha sulle spalle un fardello da oltre 2.190 miliardi, è insieme al Portogallo il Paese potenzialmente più a rischio, anche se nella storia non ha mai fatto default e in quasi tutti gli anni della crisi lo Stato ha registrato entrate superiori alle spese
La ristrutturazione del debito greco, che vale 320 miliardi di euro (quasi il 200% del Pil), è uno dei punti di maggiore attrito nelle trattative tra Atene e la troika. Una prima modifica dei termini di pagamento è avvenuta nel 2011 con un taglio del valore nominale di una parte dei titoli del 50% e una rimodulazione delle scadenze. Ora il governo greco vorrebbe ottenerne un’altra, forse più drastica. In questo quadro giovedì Olivier Blanchard, capo economista dimissionario del Fondo monetario internazionale, pur non facendo nomi ha messo tutti in guardia: “Dobbiamo essere pronti a vedere altri episodi del genere nella dinamica del debito”, ha affermato durante la presentazione delle previsioni economiche aggiornate dell’istituzione di Washington. A chi gli chiedeva se facesse riferimento a qualche Paese in particolare, il capo economista ha detto di non voler parlare di alcun caso specifico. Forse a Roma o a Lisbona a qualcuno hanno fischiato le orecchie, visto che quello italiano è il secondo debito più pesante rispetto al prodotto interno lordo, dopo quello di Atene.
E di ristrutturazione del debito si è parlato in passato, spesso sottovoce, anche per l’Italia, che insieme al Portogallo è forse il Paese dell’aera euro potenzialmente più a rischio. Nel 2011, con lo spread sopra i 500 punti e tassi di interesse sui titoli decennali oltre il 7%, un intervento sul debito è stato visto come qualcosa di più che una semplice ipotesi. Il nostro paese ha sulle spalle un fardello da oltre 2.190 miliardi di euro di debiti, per l’83% sotto forma di titoli di Stato, su cui paghiamo ogni anno tra i 70 e gli 80 miliardi di interessi.
È tanto, è troppo? Dipende. Innanzitutto più che il valore assoluto conta il rapporto con il Prodotto interno lordo. Quello italiano vale oggi circa 1.616 miliardi di euro. Il rapporto tra debito e Pil è dunque al 132%. Come per molti paesi occidentali è cresciuto in questi anni di crisi anni della crisi. Era al 116% nel 2011, al 123% nel 2012, al 128% nel 2013. Il peggioramento è dovuto sia all’aumento del debito sia dalla discesa del Pil. L’Ocse, utilizzando criteri di calcolo più severi rispetto a quelli dei governi nazionali, stima che il debito italiano abbia ormai raggiunto il 156% del Pil. Cifra che il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha definito “fuori luogo”.
Tutto considerato c’è poco da festeggiare, ma non significa che le nostre finanze siano in rotta verso il disastro. I fattori in gioco non sono solo l’entità del debito e la crescita economica ma anche inflazione (più è alta più chi ha debiti è avvantaggiato), il livello degli interessi e il saldo tra entrate e uscite pubbliche. L’Italia è uno dei pochi paesi europei ad avere mantenuto per quasi tutti gli anni della crisi un avanzo primario, ossia le entrate hanno superato le spese prima che venissero pagati gli interessi sui debiti. Inoltre grazie alle politiche della Banca centrale europea, che hanno piallato tutti i rendimenti, paghiamo interessi storicamente molto bassi. Nel 2014 la media è stata appena del 3,7% e se si guarda le sole nuove emissioni ci si ferma addirittura all’1,3%.
L’inflazione, bassa se non inesistente, ci gioca invece contro. A conti fatti al momento non ci sono allarmi ma è chiaro che, soprattutto se la crescita dovesse rimanere asfittica, l’Italia è più vulnerabile di altri ai cambiamenti delle condizioni economiche e di mercato. È giusto tuttavia ricordare che il nostro Paese vanta un pedigree di debitore impeccabile. Insieme a Gran Bretagna e Francia è uno dei pochi Paesi europei a non aver mai dichiarato default o ristrutturato il suo debito nell’ultimo secolo. L’Austria, l’Ungheria e la Germania lo ha fatto ben due volte, la Russia e la Turchia tre, la Grecia lo aveva già fatto nel 1932. Storicamente gli episodi di default o ristrutturazione del debito sono stati molto più comuni di quanto non si possa pensare. Tra il 1975 ed oggi in Europa se ne sono contati 8. In America Latina addirittura 35, in Africa 21, in Asia altri 7.
In generale negli ultimi anni in Europa l’aumento del debito in rapporto al Pil è stata una regola con poche eccezioni. In base ai dati Eurostat la Francia ha visto il suo rapporto salire dall’85 al 95% tra il 2011 e il 2014. In Spagna dove le casse pubbliche si sono dovute sobbarcare il salvataggio del sistema bancario si è saliti in tre anni dal 69 al 97%. In Belgio si è passati dal 102 al 106%, in Olanda dal 61 al 69 %, in Portogallo da 111 a 130%. La Gran Bretagna ha portato il suo debito dall’81 a quasi il 90%. È aumentato, pur rimanendo su livelli contenuti, anche il debiti della Svezia e della Finlandia. In controtendenza invece la Germania, il cui debito è passato dal 77 al 74 percento del Pil pur avendo una dimensione in valori assoluti simile al nostro, circa 2mila miliardi di euro. Fuori dall’Europa è il Giappone a distinguersi per l’entità del suo debito, pari a circa il 200% del Pil, ossia oltre quasi 10mila miliardi di euro. Una situazione che non ha impedito al Paese di mobilitare investimenti pubblici a sostegno della crescita economica. Gli Stati Uniti hanno da poco varcato la soglia del 100% dopo che le ingenti risorse stanziate per aiutare la ripresa economica hanno portato il passivo dei conti pubblici sopra i 10mila miliardi.
In attesa di decisioni sulla Grecia, rimane una domanda cruciale: ristrutturare il debito è utile per il Paese che ne beneficia? La risposta non è così scontata come si potrebbe immaginare. Una delle (poche) certezze è che le mezze misure servono a poco. È quanto sostiene una delle massime esperte al mondo di crisi di debiti sovrani, l’economista Carmen Reinhart, che in un recente studio ha messo in luce come storicamente interventi radicali sul debito siano stati seguiti da una ripresa economica significativa. Dove per interventi radicali si intende drastici tagli al valore nominale dei titoli che incidono sulla carne viva di chi ha concesso i prestiti. Azioni più timide come allungamento dei tempi dei rimborsi o semplice riduzione degli interessi hanno effetti molto più modesti e di solito non forniscono una spinta decisiva all’economia. Sui possibili interventi sul debito si sprecano considerazioni e ragionamenti. Da un lato c’è chi mette in luce come la rinegoziazione dei termini dei rimborsi sia una macchia che rimane, complicando i rapporti con i mercati per lungo tempo. Dall’altro c’è chi fa notare come sia difficile che un paese si dedichi anima e corpo a un processo di riforme avendo la consapevolezza che i frutti dei sacrifici serviranno innanzitutto a pagare i creditori. La ristrutturazione di debiti sovrani è evento molto più comune di quanto possa sembrare.