In Egitto il secondo anniversario della deposizione del presidente Mohammed Morsi, avvenuto il 3 luglio del 2013, ha coinciso con uno dei periodi di maggior escalation terroristica nel paese. L’attacco al consolato italiano di oggi è solo l’ultimo di una sanguinosa serie e potrebbe mostrare un cambio di strategia da parte delle organizzazioni jihadiste che sino a ora avevano colpito prevalentemente obiettivi militari e di governo. Al momento non c’è nessuna rivendicazione, anche se la dinamica mostra diverse similarità con l’attacco alla direzione della polizia del Cairo nel gennaio 2014, anche allora un attentato avvenuto a ridosso di un altro anniversario, quella della rivoluzione egiziana, e nelle prime ore del mattino. Strategie che suonano come degli avvertimenti, che puntano a provocare un numero limitato di vittime, ma allo stesso tempo a dimostrare come sia possibile violare la sicurezza portando ingenti quantità di esplosivo nel cuore della città.
La scelta di colpire un obiettivo italiano resta ancora difficile da spiegare. “Da un lato il consolato italiano si trova in una zona popolare, quindi meno difficile da colpire – spiega a IlFattoQuotidiano.it Gennaro Gervasio, docente di storia del Medio Oriente alla BUE, British University of Cairo – dall’altro lato può essere un messaggio all’Italia, ma il nostro governo non è l’unico tra i paesi occidentali a essersi alleato con Sisi. Per capire di più c’è solo da aspettare cosa succederà nelle prossime settimane”.
Francesco Strazzari, professore associato di relazioni internazionali all’Università Sant’Anna di Pisa spiega a IlFattoQuotidiano.it che il fattore chiave di questa tipologia di attentati è la comunicazione: “Gli attentatori mandano messaggi in maniera molto simile a quelli inviati dalla criminalità organizzata“. Che la strategia si giochi sulla comunicazione è dimostrato anche dal comportamento delle autorità che tentano di controllare l’informazione (alcuni giornalisti, tra cui l’italiano Alessandro Accorsi, sono stati fermati dalla polizia questa mattina sul luogo dell’esplosione). “Il messaggio è questo: noi siamo in grado di portare chili di esplosivo in città e le diplomazie che sostengono Sisi non devono sentirsi sicure al Cairo”, continua Strazzari.
La scia di attentati che sta portando l’Egitto in uno dei periodi peggiori dalla deposizione di Mohamed Morsi a oggi è iniziata il 29 giugno scorso quando una bomba ha ucciso il procuratore generale Hisham Barakat, uno dei leader della repressione governativa contro i Fratelli Musulmani.
Due giorni dopo, il 1° luglio, Ansar Bayt Al Maqdis – gruppo che dallo scorso novembre ha giurato fedeltà allo Stato Islamico e ha cambiato il suo nome in Provincia del Sinai – ha attaccato diverse postazioni di sicurezza a Sheick Zuweid, cittadina nel Nord Sinai e ha dato il via a una massiccia offensiva dell’esercito. Il bilancio ufficiale è di 17 militari uccisi (ma fonti indipendenti parlano di 60 vittime tra le forze di sicurezza).
Ciò che al momento sembra certo è che qualsiasi strategia del governo contro il jihad continua a rivelarsi fallimentare. Lo dimostra il numero di organizzazioni terroristiche che si sono contraddistinte negli ultimi due anni. Il centro di ricerca Tahrir Institute ne ha censite 9, tutte in grado di sferrare attacchi più o meno gravi in posti sensibili nella capitale o nel resto del paese.
Fallimentare è stata anche la costruzione lo scorso autunno di una buffer zone lungo la striscia di Gaza. Circa 800 abitazioni sono state distrutte per evitare i traffici clandestini nei tunnel tra la penisola egiziana e la striscia di Gaza. Una mossa che non ha fermato l’attività di Ansar Bayt Al Maqdis che dallo scorso novembre porta avanti attacchi con tattiche e strategie sempre più affinate.