Quando non sono occupati nella critica della sentenza, i tifosi delle vicende giudiziarie, soprattutto quelle penali, disapprovano le pene inflitte: le considerano – in genere – troppo lievi. La critica alla decisione, spesso espressa in vere e proprie gazzarre mediatiche, è quasi sempre dovuta all’ignoranza delle leggi che la impongono (prescrizione, non rilevanza penale di fatti percepiti come meritevoli di condanna); ed è quindi irrilevante giuridicamente e spesso inaccettabile per il modo in cui è espressa.
La critica alla misura della pena è più comprensibile; la valutazione della gravità del fatto e dell’intensità della colpa o del dolo è in effetti molto soggettiva. Si tratta sempre delle stesse domande: quanto è stato cattivo quest’uomo? La pena che gli sarà inflitta lo indurrà a pentimento o lo inasprirà? La risposta non è mai facile. C’è sempre la possibilità di dover giudicare in futuro un reato della stessa specie ma ancora più grave: se oggi si applica il massimo della pena, quale condanna si infliggerà domani? E poi reati che offendono lo stesso bene protetto, per esempio la vita, possono differenziarsi sul piano soggettivo. Per un omicidio volontario, commesso allo scopo di occultare un altro reato (per esempio uno stupro) è previsto l’ergastolo. Chi ha cagionato per colpa la morte di una o più persone guidando in stato di ubriachezza ha certo commesso un reato gravissimo, ma non può essere trattato nello stesso modo: uccidere volontariamente e per motivi abbietti è assai più grave della più grave delle imprudenze. Fino a qui, è piuttosto semplice.
Ma quale pena infliggere nel caso concreto? La legge aiuta, prevede una forbice tra il minimo e il massimo. Certo, dal punto di vista della vittima e dei suoi familiari, anche il massimo è troppo poco. E però il giudice deve guardarsi bene dall’immedesimarsi in loro: giustizia non è vendetta; le società dove questo avviene sono barbare. E poi la pena ha sempre due aspetti: è una punizione; ma anche un’occasione di ravvedimento. Qui il dilemma è ancora più difficile perché pene troppo lievi possono generare la convinzione che delinquere conviene. Ma pene troppo afflittive trasformano il colpevole a sua volta in una vittima, producono rancore e desiderio di vendetta. E sono comunque obiettivamente ingiuste.
Tutto ciò detto, il legislatore (cioè, tanto per cambiare, la politica) ha gravi responsabilità. In molti casi, reati di intrinseca maggiore gravità sono puniti più lievemente di altri meno gravi. Un furto in appartamento (senza aggressione alle persone, in questo caso sarebbe una rapina) è punito più di un falso in bilancio, di un’evasione fiscale milionaria o di uno scempio ambientale. Naturalmente il giudice non può che applicare la legge; ma la severità nei confronti dei miserabili e la connivenza con i predatori più potenti non è degna di una società civile. D’altra parte, la soluzione adottata dalla politica è inaccettabile: pene fino a 4 anni di reclusione non sono in concreto espiate. Che significa sommare ingiustizia a ingiustizia. In tal modo l’impunità è garantita anche a quella fascia di criminali che dovrebbero invece scontare le loro condanne, ancorché lievi in confronto alla gravità dei reati commessi. Così il vivere civile si trasforma in una permanente razzia e molti, constatandone la debolezza, abbandonano la comunità degli onesti.
Il Fatto Quotidiano, 11 luglio 2015