La cucina tradizionale nipponica “washoku” è Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità. Annalena De Bortoli, coordinatrice dell’Associazione Italiana Ristoratori Giapponesi, ci aiuta a capire come scegliere un ristorante che rispecchi l’autenticità dei sapori e ci svela alcuni "trucchi" delle formule "All you can eat", sempre più popolari
Abbiamo più o meno capito come si dovrebbe star a tavola per rispettare il “galateo” giapponese, adesso orientiamoci nella scelta del ristorante. A darci qualche chiarimento sui ristoranti a insegna giapponese è Annalena De Bortoli, coordinatrice dell’Associazione Italiana Ristoratori Giapponesi in un’intervista per FQ Magazine.
Da quale idea nasce l’Associazione Italiana Ristoratori Giapponesi?
Nasce nel 2003 da un gruppo di ristoratori giapponesi, che si erano conosciuti a Milano e che avevano deciso di collaborare, all’inizio prevalentemente per risolvere problemi pratici, come i visti per i cuochi che venivano dal Giappone o il reperimento di alcune materie prime che non erano facilmente importate in Italia. In seguito si è sviluppata soprattutto come associazione culturale, con l’intento di far conoscere al pubblico italiano i gusti autentici del Giappone e le sue specialità. La cucina tradizionale giapponese ha un repertorio vastissimo e l’Unesco, infatti, l’ha inserita nella lista del Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità.
Quanti sono in Italia i ristoranti giapponesi?
I ristoranti a insegna “giapponese” sono infiniti: nella sola Milano se ne contano più di 400. Di “autentici” giapponesi a Milano – sempre tenendo come termine di paragone il capoluogo meneghino – ce ne sono meno di una ventina e, in totale, forse meno di una cinquantina in tutta Italia.
Cosa s’intende per “autentico” giapponese?
S’intende un ristorante in cui lo chef o uno dei titolari sia giapponese, quindi conosca profondamente la tradizione gastronomica giapponese, le metodologie di preparazione del cibo, le materie prime tipiche e che poi scelga di usarle secondo il proprio stile – tradizionale o anche contemporaneo – con la consapevolezza di quali materie andrebbero selezionate, di come trattarle e di come servirle.
Ritiene che ci siano differenze significative tra i piatti proposti da ristoratori giapponesi e quelli proposti da ristoratori non giapponesi? Questi ultimi rispecchiano per qualità e originalità la tradizione e l’autenticità della cucina nipponica?
I ristoratori e gli chef “non giapponesi” in genere non conoscono la tradizione e spesso utilizzano il sushi come strumento di comunicazione e promozione del proprio ristorante per poi servire non solo sushi, ma anche altri piatti che nulla hanno a che vedere con la cucina giapponese. Molti ristoranti a insegna “giapponese” sono cinesi e spesso i ristoratori abbinano le due cucine, perché utilizzano alcune materie prime simili, come il riso, la soia o il vino di riso, che fanno parte anche della cucina tradizionale cinese. Mediamente lo chef di un ristorante non autentico giapponese non ha studiato per anni cucina giapponese ma ha semplicemente, in genere, assistito uno chef giapponese per qualche mese o ha seguito corsi specifici di qualche settimana. Pertanto è difficile che abbia la capacità effettiva di selezionare il pesce, di tagliarlo, condirlo e proporlo nel modo corretto, parlando di sushi. Tutta una serie di distinzioni si possono poi fare anche per materie prime, come la soia giapponese e il sake dei quali esistono tante varietà e qualità e che vanno selezionati anche in base al piatto che viene preparato. Non sempre chi ha una formazione poco approfondita di cucina giapponese utilizza i prodotti giusti. Il wasabi è una radice giapponese piccante di colore verde che in Giappone si grattugia direttamente davanti al cliente. In Italia è di difficile reperibilità, quindi è usato di solito in polvere o in pasta. A volte capita che, per abbassare i costi, vengano usate anche radici non giapponesi, pigmentate con dei coloranti alimentari. Allo stesso modo, per il sushi va selezionata la giusta varietà di riso, che va cotto in modo specifico, condito con la mistura di aceto più adatta allo stile di sushi prescelto e pressato dando diversa consistenza in base al tipo di pesce a cui si accompagna. Si crede che cuochi, senza la lunga preparazione dei professionisti giapponesi, possano preparare sushi allo stesso modo degli “itamae” giapponesi, veri e propri maestri, ma la formazione e la lunga pratica sono indispensabili per la realizzazione di un buon sushi…
Quali sono i principali accorgimenti che uno chef deve rispettare nella preparazione del pesce per il sushi?
Lo chef giapponese si presenta al mercato del pesce di prima mattina, per scegliere sia la qualità che le varietà migliori. Chi si presenta verso la chiusura, mira invece a ottenere un buon prezzo sul pesce rimasto invenduto. Per uno chef giapponese, però, è molto importante che il pesce sia non solo freschissimo, ma anche della massima qualità. La legge in Europa prevede che il pesce vada o servito cotto o processato con gli appositi abbattitori di temperatura, per assicurarsi contro l’anisakis, parassita che – come sappiamo – può provocare gravi scompensi per la salute. In Giappone il problema non si pone perché il pesce viene comprato vivo, il parassita non fa dunque in tempo a migrare dall’intestino del pesce alle carni. In Italia, uno chef diligente dovrebbe sempre e solo acquistare pesce di prima qualità e abbatterlo secondo la normativa, se vuole servirlo crudo. Purtroppo non è sempre così e a volte si sente parlare di casi di intossicazione da sushi.
Come si spiega i prezzi bassi degli “All you can eat”?
Gli “All you can eat” di solito propongono un menu molto ristretto per varietà di pesce, che potrebbe essere anche di seconda scelta. Se ci facciamo caso, la proposta di sushi degli “All you can eat” comprende in genere tonno, salmone, un pesce bianco (non sempre identificato), gamberi (tendenzialmente cotti) e poco altro. In un ristorante autentico giapponese si trova una vasta gamma di specie ittiche, soprattutto pesce di stagione. Ovviamente a parità di quantità, costa molto di più acquistare 20 pesci ciascuno di specie diversa che acquistare 10 esemplari di 2 soli tipi. E’ questo il genere di economia che si fa negli “All you can eat”: una gamma molto ristretta, con una qualità basica (non si cerca l’eccellenza), alla quale vengono accostati molti altri piatti che di solito prevedono una quantità notevole di riso o di pasta, cioè prodotti di basso prezzo e di alta resa, che riempiono facilmente.
Che cosa consiglia ai sushi-lover per scegliere un buon ristorante di cucina giapponese, che abbia anche un accettabile rapporto qualità-prezzo?
Cominciare ad assaggiare il sushi in un ristorante autentico. In genere, a pranzo e nei menu fissi i prezzi sono abbastanza abbordabili, anche se il costo medio di un autentico ristorante giapponese non si scosta poi molto da quello dei ristoranti italiani specializzati in pesce. Consiglio quindi di provare prima i ristoranti autentici, farsi il palato, capire il sapore “corretto” che va ricercato nel sushi e poi assaggiare anche le altre specialità giapponesi.