MÛR DE BRETAGNE. Accanto al Mûr de Bretagne c’è il Lago di Guerdélan, bacino idroelettrico svuotato d’acqua, dunque d’energia. Come Vincenzo Nibali. Svuotato d’energia. Il cuore malmenato. Labbra esangui. Inceppato. Nibali camuffa la crisi sino a due chilometri dall’arrivo. Ma ha le gambe in croce. Non inganna gli avversari. A loro basta un colpo d’occhio. Sanno. Vincenzo soffre. La caduta di Le Havre ha lasciato il segno. Le sue pedalate sanno di bluff.
Chris Froome è scatenato. La maglia gialla vuole la pelle di Nibali. Ha tre compagni che lo affiancano e che tirano alla morte. Qualche alleato: la Bmc del giovane yankee Tejay Van Garderen, con il trentino Daniel Oss che si danna in testa al plotone. E le squadre francesi, sinora a corto di successi. Più Peter Sagan che corre il suo Tour contro la maglia verde, il tedesco André Greipel. Sornione, Alberto Contador. El Pistolero ha mandato avanti i suoi a scandire il ritmo. Non più di un minuto, tanto per dire: occhio che a giocare duro ci sono pure io. La guerra Froome-Nibali è un regalo, per lui. “Alberto è uno che non si arrende mai”, dirà in conferenza stampa la maglia gialla.
Meno teatrale, Nairo Quintana. Il colombiano non spreca le forze. Le sue salite arrivano la prossima settimana. Per adesso, si dissimula nel gruppo di testa. Segue la corrente. Non molla l’osso. Gli ultimi due chilometri dell’ottava tappa cominciata a Rennes (in totale 181,5 chilometri) sono in salita. I primi cinquecento metri superano il dieci per cento di pendenza, poi la strada spiana un po’, per riprendere l’ascesa sino al traguardo. La media è del 6,9 per cento. Un tempo si diceva: terreno ideale per finisseurs. Nel 2011 Cadel Evans si era imposto qui, prima di vincere il Tour. Un top 5 da sogno: Evans aveva battuto Contador, Vinoukorov, Uran, Gilbert.
L’anno scorso, un finale simile era quello di Sheffield, e lì Nibali vinse umiliando Froome. Il britannico non l’ha mai perdonato.
La bagarre dei campioni, spalla contro spalle, è il sale degli arrivi in salita. Dunque, il Mûr di Bretagna è più di un assaggio. E’ una prima resa dei conti. Una sorta di tagliando dei motori in gara. Quello di Froome ha un’ottima messa a punto. E pure la squadra coopera che è una meraviglia. Sono tre i compagni della Sky che spingono al massimo. Il gruppo di sfrangia. Diventa un plotone d’esecuzione. A un certo punto Jakob Fuglsang, l’unico dell’Astana rimasto assieme al capitano Nibali, allunga. Vuole riportare Vincenzo sulle ruote dei migliori. Si volta per controllare. Ma Nibali non ce la fa. Il siciliano annaspa. Gli altri vanno avanti, lui scivola lentamente, inesorabilmente indietro.
C’è un momento in cui Nibali è triste, solitario y final. Davanti schizza fuori dal gruppo dei primi il francese Alexis Vuillermoz dell’AG2R La Mondiale. Ha ventisette anni, viene dalla Francia Contesa, le sue montagne sono quelle del Giura, non lontano dalla Svizzera e dalla Savoia. E’ uno scalatore, ha un buono spunto, nel Giro d’Italia del 2014 – quello vinto da Quintana – si è piazzato undicesimo. Lo scatto di Vuillermoz sorprende Sagan e Froome che puntava agli abbuoni destinati ai primi tre. I francesi puntavano piuttosto su Tony Gallopin. Che marca Sagan e resta fulminato, come tutti gli altri. L’arrivo è di quelli che si sogna. Col tempo di sollevare le braccia e non avere paura d’essere più raggiunto. Vuillermoz, infatti, è primo con 5 secondi di vantaggio su Daniel Martin e 10 su Alejandro Valverde che supera Sagan, Gallopin, Greg Van Avermaet. Froome è ottavo. Van Garderen decimo. Purito Rodriguez, dodicesimo. Contador quattordicesimo. Quintana diciassettesimo. Nibali è trentesimo. Busca dieci secondi da Froome e gli altri. Sagan conquista la maglia verde: Greipel è affondato ad oltre sei minuti, centotrentesimo. Lanterne rouge è sempre Michael Matthews.
Dieci secondi, di per sé, sono poca cosa. Ma qui sono una piccola, feroce, sentenza. Adesso, in classifica, il ritardo da Froome è salito a un minuto e 48 secondi, da Contador un minuto e 12 secondi, mentre Quintana gli sta dietro di ormai appena 8 secondi. Domani c’è la crono a squadre, dopodiché lunghissima trasferta – corridori in aereo, noialtri in auto – sino a Pau. Pirenei. Salite vere. Chissà se vedremo filare con l‘ebbrezza del vincitore il desolato Nibali di questo pomeriggio bretone?
Immagino lo stato d’animo di Vincenzo, costretto a spiegare e spiegarsi. Da due giorni non scrive nulla su Twitter. Appena arrivato al traguardo, dice: “E’ stata una giornata no”. Sincero, come sempre. Non accampa scuse. Il Tour è ancora lungo. C’è tempo per riprendermi. Lunedì, il giorno di riposo, ci vediamo alle quindici, al mio albergo. Speremm.
Accanto al podio delle premiazioni c’era il palco che gli abitanti del posto avevano allestito. Musica e danza. Di guerra e d’amore. Di attese e speranze. Il ciclsimo è come la vita. Si vince e si balla di felicità. Si perde e si piange, per la disperazione.
Il Tour oggi è passato a Saint-Méen-Le-Grand, dove è nato il 12 marzo del 1925 il grande Louison Bobet, fiero rivale di Fausto Coppi, del quale era amico ed ammiratore. Bobet vinse tre Tour, uno dopo l’altro: nel 1953, 1954 e 1955. Fu pure campione mondiale nel 1954, l’anno dopo Coppi. Vanta 122 vittorie. Ci ha lasciato il 13 marzo del 1983, il giorno dopo il suo compleanno. Infarto. L’avevo conosciuto a Quiberon, dove aveva messo in piedi un moderno complesso di talassoterapia, allora il primo d’Europa.
Così come ho conosciuto suo fratello minore Jean Bobet, classe 1930, laureato in letteratura inglese, buon giornalista ma grande scrittore di ciclismo. Dei suoi libri, il più drammatico ed intenso è “Le vélo à l’heure allemande”. Racconta di come la bicicletta – chiamata dai francesi “la petite reine”, la piccola regina delle strade – fosse diventata “la reine” dei trasporti. Dal 3 settembre del 1939, la dichiarazione di guerra, al 25 agosto 1944, la liberazione di Parigi, Bobet incrocia vicende sportive e tragedia. come quella del Vel’ d’Hiv, quando il 16 luglio del 1942 la polizia francese vi deportò 8mila ebrei e li consegnò alla Gestapo e alle SS. E’ il racconto della vergogna e dei silenzi, della voglia di resistere, e delle strumentalizzazioni di regime.
I campioni della strada servivano a Vichy per fingere che tutto fosse tornato alla normalità: al Vel’ d’Hiv’ (in Francia durante la guerra funzionavano più di 160 velodromi) si applaudivano il francese Ttò Gerardin e l’olandese Van Vliet, facevano le loro prime corse Jean Robic, Bobet, Raphael Geminiani. Emile Idée e il belga Marcel Kint si affrontavano in una Parigi-Roubaix con la compiacenza dei tedeschi occupanti, e anche in una Parigi-Tours, viene proposto persino un ersatz del Tour de France… molti ciclisti, come in Italia Gino Bartali, aiutavano i partigiani, e molti pagarono con la vita la loro coraggiosa scelta.
Ecco, piuttosto di incensare il gigante del ciclismo francese Bernard Hinault che trent’anni fa vinse il quinto ed ultimo Tour – ultima vittoria di un francese… – e di cui ogni giorno i giornali pubblicano interviste, o scrivono cronache parallele (1985-2015), preferisco ricordare i fratelli Bobet, il campione e lo scrittore. Lettura e bicicletta sono indissolubilmente legati. Si impara a leggere e a restare in equilibrio sulla bici più o meno allo stesso tempo. La scrittura è memoria, testimonianza, racconto. Serve a non dimenticare. Come non ci si dimentica di pedalare. Sappaimo leggere e scrivere per sempre. Due segreti che portiamo sino alla fine della nostra esistenza, quando purtroppo dovremo oltrepassare la linea d’arrivo di un traguardo che vorremmo non infrangere mai.
A proposito di infrazioni, niente da segnalare sul fronte pipì. Sul fronte più ambiguo del doping, oltre all’abbandono forzato di Luca Paolini perché le analisi hanno trovato tracce di cocaina, segnalo due pagine di Le Monde uscite oggi dedicate al doping. La prima in cui si dice come l’Agenzia francese che dovrebbe combatterlo sia in crisi e come il laboratorio di Châtenay-Malabry sia senza direttore, con tutte le implicazioni di gestione che ciò comporta. Il secondo è invece dedicato a Michael Rasmussen, corridore danese – lo chiamavano Chicken – dall’immagine sulfurea. Nel 2007 dopo essere stato per nove tappe maglia gialla, fu escluso dalla sua stessa squadra, la Rabobank, lo stesso giorno in cui aveva conquistato la tappa del Col de l’Aubisque. Il suo nome è sinonimo di corridore dopato.
Nel 2013 ha scritto un libro di memoria, Gull Fevere (la febbre gialla) in cui riconosce di essersi dopato dal 1998 al 2010. La ricetta magica per vincere? “Epo, trasfusioni di sangue, corticoidi”. Tornerà sulle strade del Tour il 17 luglio. Ora che si è tolto questo macigno di dosso, ammette: “E’ semplicemente stupido chiedere a un ciclista professionista: lei è dopato? Fatelo cento volte e cento volte i corridori mentiranno. Il giorno che dirà la verità, la sua carriera sarà finita”.