Lo Stato Islamico è arrivato al Cairo dalla penisola del Sinai dove da un anno imperversa una mini guerra tra le forze egiziane del regime militare di Sisi ed i ribelli jihadisti, appoggiati ed ispirati dal Califfato. Come una multinazionale del terrore, l’Isis continua ad aprire succursali nelle capitali musulmane. Ma si tratta di franchising gestite da jihadisti locali, gente che sogna di replicare il sistema politico di Raqqa nella propria terra. L’Isis è ormai un marchio di qualità nell’universo jihadista, un brand inconfondibile, al quale si accompagna una strategia di lotta armata ben determinata.
E’ sbagliato vedere nell’attentato al consolato italiano al Cairo un attacco specifico contro l’Italia. Piuttosto, questo fa parte di un fenomeno ormai consolidato: i seguaci dell’Isis nel mondo colpiscono dove possono, dove è più facile portare a termine un attentato. Quindi, che l’obiettivo sia il consolato di un paese o di un’altra nazione occidentale importa poco, l’impatto sull’Occidente è sempre scioccante. E uno degli scopi del franchising dell’Isis è terrorizzarci.
Un filo ideologico e strategico lega quindi i lupi solitari europei, australiani o canadesi agli attentati in Medio Oriente, in Africa ed in Asia. Tutti fanno parte del sistema di franchising del Califfato. L’internazionalizzazione dell’Isis è palpabile e sicuramente non è limitata a fomentare la paura degli occidentali. Questo è l’obiettivo di breve periodo, meno pericoloso di quello di lungo periodo.
E’ ormai chiaro che il Califfato mira a fomentare una rivoluzione politica nel mondo musulmano, un terremoto che ridisegni la mappa politica di questo mondo. Mascheratosi come movimento fondamentalista religioso, l’Isis in un anno è riuscito a farsi strada tra i gruppi più radicali e tra i veterani della rivoluzione araba, ad esempio i fratelli musulmani. E’ per questo che in Egitto, una nazione con una lunga tradizione insurrezionale propria, la bandiera del Califfato ha spiazzato tutti i gruppi di opposizione ad al Sisi ed è diventata l’emblema dell’opposizione armata contro il nuovo regime militare. Morsi ed i leader della Fratellanza Musulmana eletti democraticamente ed incarcerati nel braccio della morte, non hanno nulla a che vedere con al Baghdadi, infatti se fossero ancora al governo combatterebbero contro l’Isis.
Naturalmente il fatto che il regime di Sisi accomuni il Califfato alla Fratellanza Musulmana, e che l’Occidente ci creda, aiuta il primo a spiazzare il secondo dalla scena insurrezionale.
Sbagliamo dunque l’analisi politica e forse lo facciamo intenzionalmente altrimenti dovremmo ammettere che i nostri errori hanno aiutato l’ascesa dell’Isis sul palcoscenico internazionale. E questa critica vale anche per le politiche anti-terroriste perseguite in casa nostra. Prendiamo ad esempio il problema dei combattenti stranieri, decine di migliaia di giovani europei hanno scelto di entrare nelle fila dello Stato Islamico, di diventare cittadini del Califfato. Si tratta di un fenomeno serio, che potrebbe avere gravi ripercussioni specialmente se costoro decidessero di tornare in patria. Ciononostante non esiste una politica omogenea in Europa, né un fronte compatto a livello internazionale.
La settimana scorsa ad Helsinki l’Assemblea parlamentare dell’Osce, dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, ha approvato una risoluzione sui combattenti stranieri presentata dalla senatrice del gruppo Misto, Cristina De Pietro. La risoluzione richiama proprio la necessità di una riforma generale delle normative ed auspica la cooperazione tra Stati Uniti e Russia in materia. Quindi che ben venga. Ma, come tutte le altre risoluzioni approvate a livello internazionale su temi caldi come il terrorismo, difficilmente questi ottimi intenti si tradurranno in nuove legislazioni.