E’ di una settimana fa la notizia che una startup italiana è stata rilevata dalla statunitense Ambarella per 30 milioni di dollari. Ciò che rende questa un po’ diversa dal solito è che l’acquisita Vislab, spinoff dell’Università di Parma, non produce prosciutti (merce di tutto rispetto, sia chiaro) ma ha sviluppato una vettura a guida automatizzata, Deeva, a quanto pare molto più realistica della Google Car.
Inevitabile che il successo di questo tipo di Made in Italy sia stato citato l’altro giorno durante il dibattito “4.0 – opportunità e rischi della quarta Rivoluzione Industriale”, a Montepulciano, alla quarta edizione di “Luci sul lavoro” organizzata da Italia Lavoro, Eidos e il comune ospitante.
A ricordare le fortune meritatissime di Vislab è stato Antonio Perdichizzi, ad di Tree e vicepresidente dell’associazione no profit Italia Startup. Le aziende iscritte nell’omonimo registro sono ormai 4.000 e, come ha detto Perdichizzi, “hanno bisogno di un accesso al mercato”. Oltreché di finanziamenti, ma questo lo vediamo dopo.
All’estremo opposto, alcuni dati piuttosto disperanti dicono che in un paese dove un terzo della popolazione non utilizza ancora Internet, “soltanto il 5% delle aziende manifatturiere ha la capacità di offrirsi sul mercato on line”, ha spiegato Marco Bani dell’Agenzia per l’Italia Digitale, “e l’85% delle aziende fallite lo scorso anno non disponeva neanche di un sito”. Drammatico. Ma meno stupefacente se si pensa che l’Italia, quanto a banda larga, ha una copertura del 36% contro il 68 della media europea ed è proprio di questi giorni il fallimento del tentativo di decretare sulla sua regolamentazione.
Peccato, considerando l’ottima posizione italiana in campo manifatturiero, dove occupiamo il secondo posto in Europa quanto a esportazioni (dopo la Germania, of course). Nel campo Industry 4.0 – totale automazione e interconnessione delle produzioni – però “ci serve una strategia paese, perché gli altri si stanno attrezzando”, è l’opinione di Andrea Bianchi, Confindustria. Tanto per citare ancora la Germania, “il suo asset è l’avere imprese ‘sistemiste’ che, come leader di settore, trascinano un’intera filiera”. Caso tipico, la mai abbastanza lodata manifattura automobilistica la quale impone anche al suo indotto estero, Italia compresa, di adottare gli stessi standard della madrepatria. Perciò, abbiamo il 60% dell’industria auto italiana che, lavorando per i marchi tedeschi, è stata costretta ad evolversi.
Le cifre nazionali rimangono scoraggianti, basta dare un’occhiata al quadro di valutazione dell’innovazione in Europa 2014, dove l’Italia è inserita nel terzo gruppo, gli “Innovatori moderati”, dopo i “Leader” e i “Paesi che tengono il passo”. Che di questo gruppo sia la capofila non è granché consolante; come non lo è il fatto che almeno tre Regioni (Piemonte, Emilia e Sardegna) siano inserite tra coloro che “tengono il passo”.
Tanti sono gli indicatori utilizzati per stilare la classifica, un paio suscettibili di ulteriori commenti. Intanto, non si può dimenticare che l’industria italiana è composta al 95% da microimprese con meno di 10 dipendenti e un fatturato annuo fino a 2 milioni di euro. Ciò ha una ovvia e diretta conseguenza su uno dei fattori indispensabili per “fare sistema” e incrementare l’innovazione: il rapporto privato/pubblico a proposito dei finanziamenti alla ricerca (in gergo, R&S). Come ha detto Luigi Dallai, deputato Pd dell’Intergruppo parlamentare Innovazione, “noi scontiamo l’arretratezza del paese nella ricerca, che oggi vale l‘1,2% del Pil, contro il 3% della Germania, ma non possiamo pensare di demandarne la soluzione alle imprese private se la spina dorsale della nostra industria è composta di piccolissime aziende. Perciò, il compito di finanziare la ricerca spetta al pubblico”.
Anche perché, aggiungiamo noi, ciò che distingue l’Italia dalla Grecia è proprio la struttura produttiva. Noi qui, nel bene e nel male, facciamo cose che altri vogliono comprare e sarebbe opportuno continuare così.