Verità nascoste e oscuri intrighi nel libro di Ferdinando Molteni: probabilmente la morte raggiunse il cantautore lontano dall'hotel Savoy e poi volenterosi “maldestri necrofori” si misero all’opera traslando il suo corpo nella stanza 219. Implausibile, poi, quella pistola automatica senza più caricatore (terminato grottescamente sotto le sue gambe). E ancora, altri misteri insondabili, in un interminabile carosello macabro di morti precoci e spesso violente
Il 27 gennaio del 1967, nella camera 19 dell’Hotel Savoy di Sanremo, viene ritrovato il cadavere di Luigi Tenco. Vicino al corpo senza più vita si staglia il controverso bigliettino: “Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio tutto questo non perché sono stanco della vita, tutt’altro, ma come atto di protesta contro un pubblico che manda “Io tu e le rose” (di Orietta Berti ndc) in finale e a una commissione che seleziona “La rivoluzione”. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi”.
Poco prima Tenco si era esibito nella diciassettesima edizione del Festival della canzone italiana. “L’anno della resa dei conti tra matusa e giovani” strillavano, guerrafondai, i giornali per le masse. In verità, la sua esibizione non l’aveva vista nessuno: quando Tenco salì sul palco, ultimo in scaletta, trentesimo in gara, il secondo canale Rai aveva staccato da più di un’ora la diretta tv. Sugli apparecchi televisivi degli italiani c’era il monoscopio quando Tenco cominciò a cantare “Ciao amore ciao”. La salmodiò lentamente; la sua compagna di canzone e amante nella vita, la diva francese Dalida, l’aveva intonata poco prima a mo’ di marcetta.
“Ciao amore ciao” venne bocciata dalla giuria, e in modo schiacciante, imprevisto, assurdo. Al suo posto entro in finale un inno “reazionario” come “La rivoluzione” di Gianni Pettenati. Esattamente quel tipo di canzone contro cui il nostro primo cantautore si batteva allo spasimo.
“Chi ha ucciso quel piccolo principe che non credeva nella morte?”. Torna a chiederselo oggi un bel libro, costruito come un processo indiziario, scritto da Ferdinando Molteni ed edito da Giunti. “L’ultimo giorno di Luigi Tenco” il titolo. Troppe cose non tornano in questa pagina squallida della nostra recente storia nazionale. Troppe reticenze, troppe verità negate, troppe acque intorbidate. In tanti mentirono sulle ultime ore dell’autore di “Vedrai vedrai”. Oppure tacquero, come ne “Il porto delle nebbie” di Simenon.
Tenco era un ragazzo profondo e dall’avvenire sicuro. Prima di partire per Sanremo aveva confidato al suo amico Fabrizio De André (uno dei pochissimi colleghi del mondo della canzone che avrebbe preso parte al suo funerale): “Mi parlò della sua angoscia di affrontare la bolgia del festival. Mi disse: non vedo l’ora che tutto finisca per tornare da te e mettere su uno spettacolo insieme”. Ad altri aveva confidato il suo nuovo progetto: un disco di canzoni etniche, popolari, che tracciasse i confini di una sorta di nuovo folk italiano. “Sì, Tenco diceva che a Sanremo non ci voleva andare. Ma in realtà ci voleva andare”.
Troppe ombre in questa vicenda, ed è sempre più arduo credere a un suicidio. Molteni mette in fila domande abrasive, suffragate da fatti veri e notizie certe e verificate. Perché nessuno udì il colpo di pistola al Savoy? Eppure c’era il sold-out di cantanti, impresari, giornalisti. Dove morì veramente Luigi Tenco? E chi premette il grilletto? Fu un incidente, un colpo partito per sbaglio? Trenta giorni dopo, Dalida cercò a sua volta di togliersi la vita, e lasciò scritto: “Tenco è andato avanti, in staffetta, senza volerlo veramente. E io l’ho seguito, volendolo veramente”. Cosa voleva dire questo messaggio tra le righe? Forse che la morte lo raggiunse altrove, e poi volenterosi “maldestri necrofori” si misero all’opera traslando il suo corpo nella stanza 219? Implausibile, poi, quella pistola automatica senza più caricatore (terminato grottescamente sotto le sue gambe).
Altri misteri insondabili, in un interminabile carosello macabro di morti precoci e spesso violente. Lucian Morisse, l’ex potentissimo marito di Dalida, forse legato alla mala marsigliese, finì i suoi giorni sicuramente suicida: si sparò nel 1970, a quarantuno anni. Non riusciva più a sopportare l’abbandono di Dalida, e anche lui (come il rivale d’amore Tenco) usò una Walther Ppk 7,65. E che dire dell’ineffabile commissario di polizia Arrigo Molinari? Fu sempre legato ai francesi, Molinari, che millantò pure una militanza in Gladio e nella congrega anticomunista “Stay Behind”. “Coprendo la messa in scena del cadavere dentro la camera 19 dell’Hotel Savoy, aveva salvato la carriera di Dalida e aveva fatto un piacere, ancora una volta, ai francesi – scrive Ferdinando Molteni -. A Lucien Morisse, prima di tutto”. Lo stesso Molinari non è morto di vecchiaia, ma ucciso a coltellate nel 2005, ufficialmente per una rapina.
Nessuno pensò nemmeno minimamente di interromperlo quel Sanremo del ’67. “The show must go on”, e tutti fecero finta di niente, i moralisti e i sepolcri imbiancati attaccarono i loro predicozzi da strapazzo, la politica e quasi tutta la “classe musicale” esecrarono l’“insano gesto”, che fu nascosto oscenamente sotto il tappeto rosso del salone del Casinò. Ma in verità nulla fu più come prima. La canzone italiana perse ogni sua possibile innocenza, e le ragioni dell’industria si divaricarono per un bel pezzo dalle istanze del cuore e della poesia. Sarà un caso, ma le parole più belle su quella maledetta sera le ha tessute il grande poeta Luigi Gatto: “Luigi Tenco, con la sua morte, non s’è visto nemmeno riconoscere la ragione che l’ha portato a dichiarare il suo amore alla vita nel momento stesso in cui aveva deciso di togliersela. È questo il suo testamento che tutti hanno cercato di dimenticare, nell’addurre a stanchezza, a delusione, a fragilità il suo atto consapevole di amare la vita e di rifiutare una qualunque esistenza, che sia solo l’affronto del lasciarsi vivere, del ridursi a oggetto del potere altrui”.