Nel 2008 i giornalisti del mensile campano scrivono un articolo sull'insegnante di Di Pietro Junior, poi diventata coordinatrice dell'Idv. Nel 2013 vengono condannati in primo grado a un maxi risarcimento che costringe la testata a chiudere dopo 30 anni. Inutili gli appelli al Quirinale (che salvò Sallusti). I giornalisti però nel 2014 denunciano il giudice che li ha condannati, ora indagato per abuso d'ufficio ed omissione di atti d’ufficio ai loro danni. La decisione del Gip a giorni. E il caso rilancia il tema della censura dell'informazione attraverso il ricatto economico
In Parlamento torna una gran voglia di “legge bavaglio”, pochi però si preoccupano delle manette che bloccano le rotative della libera informazione. Brandendo come una clava l’istituto della diffamazione. A farne le spese, in ultimo, è il mensile campano “la Voce delle Voci” che è in edicola da trent’anni e si è fatto largo nel panorama delle notizie con inchieste scomode su vari fronti, dalle infiltrazioni della camorra negli uffici pubblici ai fatti di corruzione e fino al coinvolgimento di logge massoniche in affari poco chiari.
La storia è ingarbugliata ma emblematica. Al cuore di tutto c’è una sentenza emessa a marzo 2013 dal Tribunale di Sulmona che ha imposto un risarcimento danni di 69 mila euro (più gli interessi) a favore dell’attuale coordinatrice dell’IdV del capoluogo abruzzese, Annita Zinni. La Zinni voleva avere soddisfazione per un articolo scritto nel 2008, e successivamente parzialmente rettificato, che riguardava il suo ruolo per la formazione del figlio di Antonio di Pietro, Cristiano. La condanna emessa cinque anni dopo ha avuto conseguenze catastrofiche per il giornale, ridotto sul lastrico: per riscuotere la somma i legali della signora Zinni hanno pignorato i conti personali dei giornalisti e anche i contributi dello Stato, pari a 21mila euro, che la cooperativa editrice doveva ancora riscuotere. Il legale della Voce, l’avvocato Michele Bonetti, si era opposto affermando che quelli sequestrati sono fondi pubblici che lo Stato eroga per garantire un bene comune prezioso: il diritto ad essere informati andando oltre ciò che diffondono le veline dei Palazzi. Niente da fare. E alla fine è stata pignorata anche la testata giornalistica, costringendo il mensile a sospendere le pubblicazioni.
Ma c’è di più. I giornalisti, in attesa che si celebri l’appello all’Aquila, hanno sporto denuncia contro Massimo Marasca, il magistrato di Sulmona che il 25 marzo 2013 ha pronunciato la sentenza di morte del mensile. Alla Procura generale della Cassazione, al ministero della Giustizia, al Csm e alla Procura di Campobasso hanno denunciato l’inerzia investigativa degli uffici giudiziari che fanno capo al magistrato sul cui tavolo era finita la vicenda Zinni. Marasca è ora indagato per abuso d’ufficio ed omissione di atti d’ufficio ai danni dei giornalisti Andrea Cinquegrani e Rita Pennarola. Tocca ora a un giudice del Tribunale di Campobasso, Maria Rosaria Rinaldi, il delicato compito di pronunciarsi sulla condotta di un collega e stabilire se le indagini a suo carico debbano proseguire. Al termine della camera di consiglio del 7 luglio scorso, il Gip ha rinviato la decisione ai prossimi giorni. Così l’esistenza del mensile resta appesa a un filo, nel silenzio generale.
Poche infatti sono le voci che si sono levate per rilevare l’evidente “sproporzione” tra l’errore contestato ai giornalisti, le dimensioni della testata, la capacità economica dei condannati la condanna a morte della loro testata. Non ha prodotto i frutti sperati, ad esempio, il tentativo di interessare della vicenda Giorgio Napolitano, all’epoca Presidente della Repubblica e del Consiglio superiore della Magistratura, l’organo competente a valutare le condotte dei singoli magistrati”. Al Capo dello Stato si erano rivolti i giornalisti de la Voce delle Voci il 22 aprile 2014. Con una lettera gli chiedevano di correggere gli effetti di una sentenza abnorme che determinava la cessazione delle pubblicazioni della testata. Infondo, avranno pensato, Napolitano si era dimostrato attento al delicato rapporto tra stampa e giustizia: non erano passati due anni da ché aveva commutato il carcere in sanzione pecuniaria per Sallusti. Ma Napolitano non rispose mai direttamente. Lo fece il direttore dell’Ufficio per gli Affari dell’Amministrazione della Giustizia del Quirinale, Ernesto Lupo: “Pur nella migliore comprensione, non rientra tra le attribuzioni costituzionali del Capo dello Stato l’intervento su questioni appartenenti alla competenza dell’autorità giudiziaria”. L’esposto finì sul tavolo del Csm, e lì è rimasto.
A tenere viva l’attenzione sul caso, invece, è l’Osservatorio “Ossigeno per l’Informazione”, promosso dalla Federazione Nazionale della Stampa e dall’Ordine dei giornalisti per monitorare casi di censura e minaccia a danni dei giornalisti. “Attendiamo con vivo interesse la decisione del gip” ha dichiarato il direttore Alberto Spampinato. “L’iter di questo processo – aggiunge – dimostra in modo plateale che le norme vigenti in Italia in materia di diffamazione a mezzo stampa consentono punizioni e censure che vanno ben oltre la previsione della pena detentiva e che non hanno nulla a che vedere con la difesa della reputazione personale. Ci dice poi che queste norme consentono di fare sparire un giornale dalle edicole e di ridurre sul lastrico chi è ritenuto colpevole di aver sbagliato. Il nostro interesse al caso della Voce delle voci è accresciuto dall’emergere dell’ipotesi di condotta scorretta del giudice che ha pronunciato siffatta sentenza. Penso perciò che il giudice per le indagini preliminari di Campobasso abbia fatto bene a riservarsi la decisione che deve dimostrare che la magistratura è capace di indagare sulla correttezza dei suoi stessi membri e di giudicare i loro comportamenti con la stessa severità con cui giudica quelli degli altri cittadini. Egregio giudice, faccia con calma, prenda il tempo che le serve per fare la cosa giusta”.
Infine il messaggio a Parlamento e Governo: “Se la magistratura deve impedire le conseguenze ultronee delle sue sentenze, Parlamento e Governo devono correggere senza ulteriori indugi le norme sulla diffamazione che tuttora prevedono il carcere per i giornalisti per evitare che esse limitino il diritto di informare e di essere informati. Se un giornalista e il suo giornale devono mettere in palio tutto ciò possiedono, e anche la possibilità di proseguire la loro attività, ogni volta che pubblicano una notizia controversa, in questo paese non c’è più spazio per l’informazione giornalistica”.