Il ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi ha un bel promettere una missione in Iran “fin dalle prossime settimane”, per cogliere “la possibilità di riaffacciarsi con tutta la potenzialità del sistema imprenditoriale su un mercato importantissimo che conta oggi quasi 80 milioni di potenziali consumatori”. Nonostante l’accordo sul programma nucleare sottoscritto martedì dall’Iran e dal gruppo dei “5+1” (Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania), le aziende italiane riusciranno a recuparare solo una piccola parte del terreno perso in questi anni. Ad attestarlo è un focus dell’ufficio studi economici di Sace, il gruppo pubblico che assicura gli investimenti esteri. Per l’Italia il graduale ritiro delle sanzioni introdotte nel 2011 varrà fino a 3 miliardi di euro di esportazioni in più nei prossimi quattro anni, ma se le restrizioni commerciali non ci fossero state la Penisola “avrebbe potuto cumulare maggiori esportazioni per un valore di circa 17 miliardi di euro nel periodo 2006-2018″. Per di più, recuperare le quote di mercato perse sarà tutt’altro che facile, “considerato che concorrenti quali Cina, India, Russia e Brasile hanno subìto molti meno vincoli negli ultimi anni guadagnandosi una posizione importante all’interno del Paese”. Mentre l’Italia, che dell’Iran era il primo partner economico, è scivolata al nono posto tra i Paesi esportatori.
La nota parte dal presupposto che, “nonostante l’inasprimento delle sanzioni che dal 2011 ha ridotto sensibilmente gli scambi tra il nostro Paese e l’Iran, l’Italia rimane tra i principali partner commerciali del Paese”. E, con il venir meno delle restrizioni all’interscambio commerciale, per molti settori si apriranno opportunità importanti: in prima linea la produzione di petrolio e gas naturale, il comparto automobilistico, la difesa, i trasporti, il settore immobiliare e le costruzioni.
Il settore petrolifero è “quello che necessita di maggiori investimenti” in tecnologia e strutture per la lavorazione del greggio. L’Eni, che in Iran operava dal 1955, ha fatto sapere che “qualora le sanzioni dovessero essere tolte e il governo iraniano presenti uno schema contrattuale più favorevole in linea con gli standard internazionali, prenderà in considerazione di investire ancora nel Paese”, come anticipato già a maggio dall’amministratore delegato Claudio Descalzi. Segue l’automotive: “l’Iran era un mercato da 1,5 milioni di immatricolazioni”, sottolinea la Sace, e “ora ci si attende un ritorno sopra i 2 milioni di unità all’anno” come effetto del rinnovo di un parco circolante molto vecchio. In questo campo però “in prima linea per il ritorno nel Paese ci sono le francesi Psa e Renault, già presenti con joint venture nel Paese”. Altro settore di punta sarà quello militare: l’esercito iraniano “dispone di armamenti risalenti all’Unione sovietica e necessita di nuovi e più potenti mezzi”. Ma “qui la concorrenza di Russia e Cina sarà forte”. Discorso simile per il settore dei trasporti: “Numerosi costruttori inglesi e francesi sono alla porta per l’ampliamento e il rinnovo della rete ferroviaria”.
Il congelamento delle sanzioni è previsto entro l’anno, fatta salva la possibilità di ripristinarle in caso di violazioni dell’accordo da parte dell’Iran. A quel punto, prefigura la Sace, “se l’export italiano riuscisse a riproporre una crescita simile a quella osservata nel periodo pre-sanzioni (2000-2005), si raggiungerebbe un livello di esportazioni superiore a 2,5 miliardi di euro nel 2018”. Ma, considerato che le vendite ripartiranno da un livello “artificialmente basso a causa del freno sanzionatorio”, è probabile che una volta rimossi i vincoli “le serie statistiche subiscano uno shock positivo, con incrementi annuali anche superiori a quelli registrati nel quinquennio d’oro 2000-2005”.
Seguono però alcuni caveat. Per prima cosa, bisogna tener conto che tra 2011 e 2014 gli scambi tra Italia e Iran sono crollati da 7,2 a 1,6 miliardi, per cui un recupero di 3 miliardi in tre anni non basterebbe comunque per appianare le perdite. In secondo luogo, il Paese presieduto da Hassan Rohani presenta “una serie di rischi” che le aziende italiane non devono trascurare. Dalla “elevata corruzione” al “peso che lo Stato riveste nei diversi comparti produttivi” e che lascia poco spazio ai nuovi player che si affacciano sul mercato. Fino alle “elevate barriere doganali“: per i beni alimentari, per esempio, i dazi raggiungono il 65%. Infine, fino a quando il Paese non rientrerà a pieno titolo nei circuiti finanziari internazionali, ci saranno ancora rischi di mancato pagamento.