La società occidentale, si sa, è classista. Tanto per intenderci quella indiana è castale e quelle primitive sono tribali. Serve solo per fissare le idee e non perché si ritenga che queste classificazioni abbiano un senso e siano granitiche. In ogni caso in Occidente le cosiddette “classi” hanno un’importanza preponderante nell’organizzazione sociale. Bene. In Brasile il confronto sociale è ben più intenso che altrove e le differenze sociali sono più marcate. Come nel resto del Sudamerica le comunità povere, che qui si chiamavano “favelas” e adesso si vorrebbe chiamarle “comunidade” poiché favela risulterebbe offensivo (è il nome di una pianta infestante), vivono accanto a grattacieli pieni di appartamenti di lusso e zone residenziali piene di ville.
Nel quartiere dove abito a Rio, São Conrado, c’è chi dice si trovino le differenze sociali più feroci del Brasile. Non si arriva alle meraviglie dell’India, ma qui si trova il Fashion Mall, uno dei centri commerciali più eleganti e pretenziosi al mondo e, a 300 metri in linea d’aria, la storica Rocinha, la più grande “comunidade” povera del Sudamerica situata su una collina. Tanto per fare solo un esempio in cima alla Rocinha, non lo sanno nemmeno tutti gli abitanti della favela che vivono nella parte bassa, si trova un’area chiamata Africa per via della sua povertà estrema e qui si trovano ancora baracche di legno in mezzo a sterpi e rifiuti e anziani con l’elefantiasi alle gambe. Non potrebbero mai indossare le scarpe da 1.000 dollari che si trovano al Fashion Mall, qualche centinaio di metri sotto.
Se il razzismo è relativamente contenuto in Brasile occorre però sapere che la maggior parte dei poveri o è di origine afro-brasiliana o del nordest del paese o del Minas Gerais. In qualche modo quindi, pur non essendoci una forte discriminazione basata sul colore della pelle o sulla provenienza culturale, di fatto, qui si suole dire, “se un bianco corre per la strada sta facendo jogging, se corre un negro è un ladro” e i nordestini sono guardati con sufficienza dai carioca.
D’altra parte però la miseria nera, quella da fame per intenderci, endemica e diffusa, si è ridotta enormemente. C’è ancora molta povertà, ma la situazione negli ultimi dieci anni, per fortuna, è cambiata radicalmente. Sorgono dunque altri problemi. Per esempio quello dell’obesità o su come i poveri spendono quei pochi soldi che hanno in più. L’ecomomista del Mit Abhijit V. Banerjee nel suo libro L’economia dei poveri rileva, tra le altre cose, come incredibilmente intere comunità povere, anche in India in situazioni particolarmente difficili, utilizzino una maggiore disponibilità di denaro non per cibo migliore, ma, per esempio, per comprare televisori. Noi osserviamo lo stesso fenomeno in Brasile dove nelle comunità povere è pieno di gente che continua a dormire per terra, ma non rinuncia all’i-phone di ultima generazione. Un altro problema riguarda la qualità del cibo. L’aumento di obesità esponenziale in Brasile è legato alla diffusione di bibite gassate e merendine schifose (ma di marca) che riempiono gli stomaci di grassi saturi e altre porcherie e costano più care di sanissimi legumi e cereali.
La presidente Dilma Rousseff, la cui occupazione principale è rabastare consenso sociale per salvarsi (anziché lottare contro una corruzione diffusa, profonda e radicata), è da anni che sventola a destra e a sinistra l’ingresso di circa 40 milioni di persone nella fantastica classe media (circa 18%). Si tratta di ex-poveri che hanno acquisito un po’ di potere di acquisto, supportato da molto credito al consumo (che tra poco, se non l’ha già fatto, li inchioderà al muro come gli schiavi di una volta). Hanno il diritto anche loro di avere un auto e una casa di proprietà e scarpe decenti (tutto strapagato a rate bestiali), ci mancherebbe. Hanno acquisito anche loro il diritto a “sembrare” anziché essere. Anche se non sanno esattamente cosa sembrare. E mentre i ricchi brasiliani scimmiottano quelli americani ed europei, cancellando, persino a livello di percezione conscia le favelas, i nuovi “medi” scimmiottano i semiricchi con le indicazioni date loro dalle telenovelas (ne parlerò in una prossima occasione).
Ma quello che si dimenticano in molti di sottolineare è come poveri e classe media non abbiamo il diritto reale a una educazione decente e a una cultura basilare, ma seria e sincera, le quali servirebbero loro per accedere a quello che è il diritto, altrettanto reale, a una migliore qualità della vita. Quindi la meravigliosa classe media finisce con l’essere una massa di persone con il sacrosanto diritto ad avere di più, ma con i ventri gonfi di birra e cochecole varie, i culoni fatti di patatine e polistiroli fritti, vestiti di cose brutte e troppo costose in rapporto alla qualità, importate dalla Cina e che durano sì e no una stagione. Persone che hanno sì più soldi per comprare, ma che finiscono per farlo con cose inutili senza avere un’idea di come spendere giustamente il loro denaro, davvero per se stessi e che entrano anche loro, come tutti, negli aventi il sacrosanto diritto di riempire di traffico metropolitano, ormai al limite, consumando carburanti derivati dal petrolio e dalle biomasse. Tutta roba che devasta il territorio prima, quando viene prodotta e poi dopo, quando viene bruciata. Certo: i diritti, ci mancherebbe altro. Abbiamo tutti il diritto di devastarci. Ce l’hanno dunque adesso anche i brasiliani, così come i cinesi e come abbiamo fatto noi in Europa decenni fa un po’ dopo gli Stati Uniti. E’ normale, figuriamoci. Ma forse c’è da riflettere. “Se sapevo non crescevo” cantava Adriano Celentano all’inizio degli anni ’70.
Adesso le strade sono rimaste solo due. O va bene così e andiamo avanti così e lasciamo perdere, perché c’è sempre un imbecille che ti spiega che così hanno fatto tutti, compresi quelli come noi che stanno qui a scrivere e a leggere (con la panciona piena) e che quindi dobbiamo stare zitti. Oppure non va bene per niente e dunque occorrerebbe pensare a una crescita alternativa più intelligente o, come sostengono Maurizio Pallante e altri ricercatori, a una “decrescita felice”.
Diversamente, continuando a pensare che siamo solo bestie limitatamente intelligenti da nutrire, far lavorare e aggiustare come macchine quando si rompono (ma devono avere i loro diritti per carità), qui, come in Italia e ovunque, patrimoni naturali, artistici e umani non saranno altro, ancora una volta, che la mangiatoia di pochi corrotti, finché ce n’è, fino a quando non ci sarà più nulla da raschiare.
Foto @maurovillone