Bottiglie di vino, gatti, poveracci ed emarginati, una corsa di cavalli e una macchina da scrivere. Il ritorno di Charles Bukowski è servito. Esce per Guanda, la raccolta di poesie Mentre Buddha Sorride. Ventisette componimenti in versi, oltre la metà inediti in Italia, che sembrano uscire dalle pagine di un qualsiasi romanzo dell’autore di origine tedesca che ha poi eletto a residenza personale, perenne e simbolica, l’America dei vinti. Il “realismo sporco” bukowskiano, quello che ha reso la quotidianità convenzionale, volgare e conformista dei suoi personaggi, e del suo onnipresente alter ego Chinaski, un’elegia irriguardosa oltre i limiti della decenza, sa farsi amare anche in forma di poema. Che poi altri non è che una riduzione formale in versi di un lento dondolio di frasi secche, prive di avverbi e aggettivazioni, che ricalcano tematicamente le raccolte di racconti Compagno di sbronze e Storie di ordinaria follia, entrambi datati 1972 ma diventati i più celebri titoli che hanno disegnato la mappatura antropologica ed esistenziale di Bukowski, decretandone la popolarità.
“Cerco di tenere le persone/alla larga da qui/le persone/a me proprio/non fanno bene/specialmente i loro discorsi”. Partire dai primi versi di Cagnacci in scarpe di cemento diventa obbligatorio per rimarcare ancora una volta, se ancora qualcuno non conosce i lavori di Bukowski, una sorta di circolo escludente, oltre il quale c’è il non voluto, il non amato, il non bonariamente tollerato. Come se fossero i confini di un’ipotetica poetica di riconoscimento, Bukowski in questi versi ne ha per tanti. Intanto per questa massa di sapienti che parla (a sproposito) di Celine – amatissimo sul serio dall’autore nato ad Andernach nell’agosto del 1920 – “scriveva meglio di tutti voi/ho detto, ma i “liberali e coscienziosi” rispondono “ma è diventato/via via sempre più/pazzo”, e Bukowski “se è vero/per lo meno all’inizio doveva avere/un po’ di sale in zucca per poterlo perdere”.
E ancora l’ipotetico dialogo continua con l’apparizione di Kerouac, Ginsberg e Burroughs, ma anche di Salinger (non citato) attraverso Il Giovane Holden: “Poe era un bestseller/in Europa e/Hemingway sarebbe considerato un finocchio/ai giorni nostri”. C’è un acuto e dolente disincanto nei versi tradotti da Simona Vinciani e alla cui origine si può immediatamente risalire con il testo a fronte: il rapporto con una lei tollerante, amante e amata (La mattina dopo); l’elogio della carta igienica (Prima della 7ima corsa), una serie di aforismi privi di nesso logico tra loro e praticamente non sense (Mentre Buddha sorride), il solito Chinaski che riappare per raccontare l’odioso vicino di banco (Montagne d’orrore), e quell’autentica intuizione letteraria che è l’elevazione del “basso quotidiano” che entra senza spingere, senza far troppo male o sbalordire, nel linguaggio poetico. In Ma cosa ho visto? si concentrano sesso, alcol, cavalli e sporcizia del sogno americano in una sorta di summa dell’intero volume.
Nulla, infine, nelle poesie di Bukowski è apparentemente metaforico, e tutto appare sempre semplice, diretto e miracolosamente vitale. In questa rincorsa continua ad una lingua immediata e comune, a parole non ricercate, ad uno stile che pare un parlare a se stessi in cui vengono inseriti dialoghi improvvisi e brevi che hanno a loro volta un che di narrativo. “Il modo in cui il vecchio cane camminava/con pelo consunto, a macchie/lungo il vicolo di nessuno/essendo il cane di nessuno…/oltre le bottiglie vuote di vodka/oltre i barattoli di burro d’arachidi/con cavi pieni di elettricità/e gli uccelli addormentati da qualche parte/lungo il vicolo se ne andava/il cane di nessuno/in mezzo a tutto quello/coraggioso quanto un esercito”. Sempre chapeau, mister Bukowski.