Cultura

Lost in Revolution, viaggio da Genova a Kiev con le ucraine d’Italia

"La comunità ucraina, in Italia, è la più alta d’Europa: oltre 250mila persone, senza contare gli abusivi - racconta Marco Grasso, giornalista autore del documentario insieme a Davide Pambianchi - Il viaggio compiuto da queste donne è di circa 48 ore, il costo non supera quasi mai i 120 euro. Certo l’aereo potrebbe essere più comodo, ma come trasportare grandi quantità di prodotti che tutte portano con sé?"

di Virginia Ricci
Lost in Revolution, viaggio da Genova a Kiev con le ucraine d’Italia

Per molti potrebbe apparire come un viaggio lunghissimo, una tratta infinita. Ma a guardare meglio, la distanza che divide Italia e Ucraina è inferiore rispetto a quella che separa Trento da Palermo. Un viaggio che ogni settimana compiono decide di donne: badanti in Italia che, in patria, tornano a essere madri e mogli, laureate e professioniste, ma soprattutto motore centrale per famiglie il cui tenore di vita si eleva rispetto alla media, proprio grazie a ciò che accade varcato il nostro confine.

E in quel viaggio si sono trovati anche Marco Grasso e Davide Pambianchi. Giornalisti che imbracciati registratori e macchina fotografica, armati di una buona dose di volontà e indole curiosa, a metà dello scorso anno hanno compiuto la medesima trasferta: dall’Italia, fino a Kiev. Più precisamente da Genova, la loro città, come si legge nel sito del documentario Lost in Revolution, nato proprio da questo iter: “Le corse regolari sono ogni due domeniche. Poi ci sono i Ducato a sei posti, con cui la contrattazione è privata. Il prezzo non cambia, il pullman di linea è un po’ più comodo ma più lento. In dodici ore, alla fine della prima notte, è ancora in Italia, perché c’è una passeggera da raccogliere in ogni città. Torino, Milano, Brescia, Vicenza, Venezia. E pure le persone che arrivano da un altro pullman, partito da Napoli”.

L’idea di legare questa società, lontana ma non troppo, alla storia di donne che nel nostro paese sono ormai colonne portanti per molte famiglie, è viva da tempo nella mente dei due cronisti. Vissuta ora in prima persona affiancando personaggi che, di questo documentario, diventano protagonisti. “La comunità ucraina, in Italia, è la più alta d’Europa: oltre 250mila persone, senza contare gli abusivi” racconta Marco Grasso. “Il viaggio compiuto da queste donne è di circa 48 ore, il costo non supera quasi mai i 120 euro. Certo l’aereo potrebbe essere più comodo, ma come trasportare grandi quantità di prodotti che tutte portano con sé? A volte la fermata avviene in una campagna: ad attendere c’è una persona che ritira un pacco privo di mittente in carne e ossa”.

A delinearsi è il lato più umano di un viaggio che si staglia sullo sfondo di una migrazione diversa da molte altre, dove a modificarsi è il rapporto di genere insito in molte famiglie. Donne dotate di un’estrema volontà, legate al proprio gruppo e al proprio territorio, desiderose di portare un cambiamento separandosi da nuclei che non di rado rischiano però una lenta deriva. Mariti alcolisti o risposati ma anche figli che, grazie al denaro inviato, rasentano i pericoli di droghe e altri eccessi. Il divario fra lo stipendio di una badante a circa 1.500 euro, rispetto alla media di un salario di 400 euro a Kiev (fra i più alti percepiti), è alto. Certo ci sono anche storie lodevoli di figli visti eccellere all’università o di un residenziale sobborgo di Leopoli, città culla di nazionalismo ucraino e capitale di cultura, composto da casette costruite proprio grazie ai risparmi inviati da donne destinate ad avere contatti sempre più distanti con quelle famiglie. Un esodo iniziato a fine anni Novanta, con una forte crisi economica e il conseguente congelamento dei conti bancari, che rafforzarono quello strano flusso migratorio divenuto oggi ancora più insistente.
“Lost in Revolution è un titolo doppio: ci siamo trovati persi in una rivoluzione che sembrava perduta, ma ci sono anche esempi di rivoluzioni letteralmente perdute per strada, come quelle di donne che partono senza però vincere la propria sfida” aggiunge Marco.

Una dimensione parallela in quel momento quella di Kiev, e di forte confusione. “L’impressione era di tornare alla Comune di Parigi: manifestanti che non sapevano dove andare, milizie auto-formate che occupavano i principali edifici pubblici della città, mentre lo Stato governava solo alcuni luoghi. Si sono così formate frange nazionaliste, chiunque avesse indosso una divisa assumeva un’autorità. Un esempio di questo caos? Quando una di queste milizie, in una delle sue ronde, fermò due gay per un’intera giornata accusandoli di essere stati trovati in pieno amoreggiamento. Questi se ne lamentarono con la polizia che arrestò così i 3 miliziani: e i loro compagni, di conseguenza, assaltarono il tribunale”.

Le storie di 4 protagonisti si intrecciano con quelli di questa popolazione, come di molte donne. C’è Olga, personaggio principale, ingegnere partita come badante a Milano per portare un cambiamento nella propria famiglia, dopo aver visto il marito rientrare carico di una disillusa indolenza da tentativi di lavoro fra Slovacchia e nazioni confinanti. Desiderosa di tornare a casa ma clandestina e incerta sul proprio futuro. E poi Liubov, studentessa all’Università di Chernivtsi, nell’Ovest dell’Ucraina, che si scoprirà poi essere figlia di Olga: fra quei “privilegiati” che nel paese vivono una vita migliore proprio grazie agli sforzi di chi quasi non conoscono più, ambiziosa nel voler trovare un lavoro e una vita normale. Ma anche Valentin, ex-poliziotto che, stanco di vivere in uno Stato corrotto, ha deciso di lasciare la divisa e unirsi alla rivoluzione. Nel trailer del documentario, resta poi in primo piano un pianoforte coloratissimo e malmesso, vissuto strumento al limite con la street-art. Quello di Kyrylo, compositore e pianista di strada che ha così condotto Marco e Davide fra le più diverse situazioni nelle vesti di “compositore della rivoluzione”: trovatosi parte di diverse milizie, dopo l’inizio delle sommosse ha iniziato a vivere nei palazzi occupati ed è diventato uno dei simboli di Euromaidan.

Nasce così non solo un reportage fotografico d’insolita e inaspettata umanità, sulla situazione di un paese e delle sue donne coraggiose: ma anche un documentario di 40 minuti (creato con l’agenzia Freaklance) presentato tra festival indipendenti, da poco premiato con una menzione speciale al Genova Film Festival. Per scoprire: “Nomi e volti umani, persone alla ricerca di una felicità che non ha niente a che fare con Merkel, Putin o Poroshenko. E ci ricordano che a Est come a Sud della nostra Italia, ci sono persone pronte a morire, per guadagnarsi un pezzo di quell’Europa che hanno sognato nei loro tre quarti di fantasia, al suono dell’inno alla gioia”.

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