“Esplode un colpo di pistola. Parte la caccia al record dell’ora. Per un istante è la paresi. È terribile. L’inerzia pare invincibile, come le lancette dell’orologio inchiodate sulle 0.00. Poi uno scatto, movimento, vita. Il mondo comincia lentamente a girare. Le pedivelle, la catena, la pista, il cielo messicano intorno a me. Qualche colpo di pedale e sono nel vento. Chiudo il primo giro in 29 secondi contro i 26 di Merckx. Sono in ritardo. Ho tutta la vita per recuperare, ossia soltanto un’ora”.
A 33 anni, secondo il parere di molti, Francesco era troppo attempato per tentare il traguardo del record dell’ora, insomma una follia, un azzardo. Ma non per lui. Comincia da qui la storia avvincente piena di emozioni, ma anche di coincidenze e di numeri a partire dalla pista messicana che misurava 333,33 metri, circostanze quasi enigmistiche intorno ad un’impresa che poi si è rivelata storica.
Scorrono le immagini e sembra di vedere i paesaggi e anche i giochi dei bambini fino all’incontro con la bicicletta; ma Francesco ci ricorda che: “A quell’età per me, però, non ci sono solo giochi e avventure, perché c’è da lavorare sodo: la nostra è una famiglia povera e numerosa. Dormiamo in due o anche in tre nello stesso letto e abbiamo solo la stufa della cucina per riscaldare tutta la casa, che difatti non si scalda mai. Di notte fa così freddo che sui vetri delle finestre compaiono stelle di ghiaccio. Ciascuno di noi deve dare il proprio contributo, perché per ogni mano abile al lavoro ci sono almeno due bocche da sfamare. Mio padre, che non sta mai con le mani in mano, sa bene come impiegare anche le mie, di mani. In campagna c’è sempre qualcosa da fare, estate e inverno. Papà, inoltre, non si accontenta di essere contadino, è anche carpentiere, fabbro, maniscalco, falegname, allevatore, arrotino. Si spacca la schiena e si industria per tirarci su. È uno specialista sopraffino dei tetti e lo chiamano in tutta la valle per riparazioni e rifacimenti. Così io lo seguo nei campi, ma anche nella stalla, presso il torchio, la mola o la forgia. È anche un po’ mago, papà. Sa fare cose che nessun altro qui è capace di fare. Per esempio quando è alla forgia raccoglie le briciole di ferro e con quelle prepara i fuochi d’artificio che animano il paese ogni Venerdì Santo”.
Il libro di Moser potrebbe essere un film d’altri tempi tratto dalla dura realtà, quella che i giovani d’oggi non conoscono presi dalla frenesia di crescere troppo in fretta e spesso male. Pagine talmente intense tali da costituire un’ottima base per la sceneggiatura di una pellicola che scalderebbe il cuore anche ai più insensibili. È una di quelle storie semplici che potrebbe essere raccontata, ad esempio, dalla cinepresa di Ermanno Olmi per trasmettere le grandi lezioni di vita contenute tra le righe e tra i fotogrammi colmi di episodi genuini, di solidarietà e di cibo povero, necessario per sopravvivere. Scorrono nel racconto le immagini dell’Italia migliore, quella capace di sublimare le piccole cose, nella quale Bartali era allo stesso tempo mito e padre, “tra serate in cantina, dove il vino è fresco e la stufa è calda”.
Ci sono tanti aspetti inediti del ciclista Francesco prima di diventare il Moser al ‘centro del mondo’, con una serie di racconti di vita vissuta a beneficio delle nuove generazioni, poiché aiuta a capire il valore del sacrificio e soprattutto la voglia di cominciare e di ricominciare: “L’unico modo per conoscere un tuo limite è provare a superarlo. Tante volte potresti accorgerti che dove credevi ci fosse un muro, in realtà c’è una porta”. C’è una costante saggezza contadina a fare da filo conduttore nella confessione dell’autore; con la coinvolgente descrizione della sana ambizione e la forza e il coraggio di non arrendersi mai, anche di fronte alle difficoltà e agli scettici di professione.
È un libro importante da leggere in questa estate calda per immergersi, almeno attraverso le descrizioni evocative, nella frescura dello splendido scenario dei panorami trentini per percorrere insieme a Francesco tutta la sua carriera di ‘guerriero delle due ruote’ con il volto sereno e sorridente, capace di trasformare ogni impedimento in una vittoria. Sopratutto con se stesso per rimanere impresso nel ricordo di chi lo ha seguito nelle sue imprese ormai leggendarie: “Ho sempre corso ogni gara come se fosse l’ultima. E questa è davvero l’ultima. Deve esserlo. È un’escalation. Record ai venti chilometri e progressione continua. Un minuto prima dello scadere dell’ora ho già superato Ekimov. Il pubblico balza in piedi in preda all’emozione. L’applauso non ha mai fine. Chiudo con 50,644 chilometri, nuovo primato mondiale al coperto. Ancora una volta, record. Record. Una parola che come un forziere ne custodisce altre di preziose. ‘Re‘, come viene chiamato chi ha trionfato per tre volte alla Parigi-Roubaix, la regina delle classiche. ‘Oro‘, come le medaglie mondiali che mi sono appeso al collo, sia della pista sia della strada. E ‘cor‘, l’unica cosa che resta, perché c’era prima che salissi in bicicletta e ci sarà dopo. Nessuno lo può battere”.