Il premier non ha detto da dove arriveranno le coperture per eliminare dal 2016 la Tasi, l'Imu agricola e quella sugli imbullonati. E il governo ha già bisogno di oltre 16 miliardi per disinnescare le clausole di salvaguardia su Iva e accise più altre risorse per garantire il rinnovo contrattuale ai dipendenti pubblici e la flessibilità dell'età di uscita dal lavoro. Le strade? Più tagli di spesa, maggior deficit e gli incassi del rientro dei capitali
“Nel 2016 via l’imposta sulla prima casa, l’Imu agricola e quella sugli imbullonati, nel 2017 taglio di Ires e Irap, nel 2018 rimodulazione degli scaglioni Irpef e intervento per i pensionati“. Sono le promesse fatte agli italiani da Matteo Renzi durante l’assemblea del Pd. Poco dopo “fonti di governo” hanno diffuso stime in base alle quali gli interventi annunciati dal premier comporteranno un calo delle tasse di 5 miliardi di euro l’anno prossimo, 20 quello successivo e altrettanti nel 2018. La sola Tasi (la nuova imposta sulla prima casa introdotta dalla legge di Stabilità 2014) lo scorso anno ha fruttato alle casse dello Stato un gettito di 3,5 miliardi. A regime si parla dunque di 45 miliardi di introiti fiscali in meno. Una “riduzione senza precedenti”, ha detto Renzi. Neanche un accenno, però, alle coperture necessarie per tradurre in realtà il sogno dell’inquilino di Palazzo Chigi. Che, al netto dell’impegno preso oggi con i cittadini, a breve dovrà varare una legge di Stabilità da almeno 20 miliardi. Le carte da giocare, a parte la solita spending review, sono essenzialmente un maggior deficit (sempre che ci sia il benestare di Bruxelles) e i proventi dell’operazione di rientro dei capitali, su cui però non c’è alcuna certezza.
Servono 17 miliardi solo per evitare aumento di Iva e accise – Resta da vedere quali saranno le reazioni del ministero delle Finanze, considerato che solo tre mesi fa il ministero guidato da Pier Carlo Padoan ha varato un Documento di economia e finanza che indica una pressione fiscale in costante salita fino al 2017: dal 43,5% attuale al 44,1%. Ma soprattutto, i tecnici del Tesoro sono già impegnati a scrivere una manovra finanziaria che deve scongiurare il rischio che scattino le clausole di salvaguardia su Iva e accise: solo per questo servono oltre 16 miliardi, che di fatto ipotecano per intero una spending review da almeno 10 miliardi. I dettagli sono ancora da definire, ma il Def prevede nero su bianco che l’operazione passerà anche attraverso la riduzione delle cosidette tax expenditures, cioè le agevolazioni fiscali. Il governo conta di recuperare in questo modo almeno 1,5 miliardi. Insomma, da una parte Renzi promette sgravi, dall’altro ha già in programma una sforbiciata delle detrazioni che si tradurrà di fatto in un aumento delle tasse.
Nuove uscite obbligate: dal rinnovo dei contratti pubblici alla proroga degli sgravi contributivi – Ma la lista delle uscite è tutt’altro che finita qui. Occorre prevedere le risorse necessarie per sbloccare i contratti degli statali come imposto dalla Corte costituzionale. Il Def valuta il costo potenziale per il 2016 in 1,7 miliardi, anche se la cifra effettiva dipenderà dall’esito della contrattazione con i sindacati. In più, a maggio il governo aveva promesso che sarebbe intervenuto per consentire maggiore flessibilità dell’uscita dal lavoro con penalizzazioni sulla pensione. Una misura che vale diversi miliardi, come calcolato dal presidente dell’Inps Tito Boeri. Bisogna poi aggiungere le risorse da destinare alla proroga degli sgravi contributivi in vigore dallo scorso gennaio e quelle per l’allentamento del Patto di stabilità per gli enti locali. Con i quali è appena stata firmata l’intesa su tagli alla sanità per 2,6 miliardi.
Visto che la coperta è cortissima, l’ipotesi più gettonata è che il governo intenda giocare la carta del maggior deficit. A prima vista non ci sono grossi margini, visto che la differenza tra quello tendenziale e quello programmatico (il famoso “tesoretto”) è già stata ipotecata per far fronte alla sentenza della Consulta che ha bocciato la mancata rivalutazione degli assegni previdenziali e per ridurre il debito come richiesto da Bruxelles occorre contenere il disavanzo strutturale. Ma il premier potrebbe, come annunciato a maggio, “far casino” e invocare una maggiore flessibilità a fronte delle riforme messe in campo nel frattempo. L’altro asso nella manica sono i proventi della voluntary disclosure, a cui non per niente Palazzo Chigi, dopo la partenza in sordina, ha tentato di dare una spinta inserendo in uno degli ultimi decreti fiscali una norma che precisa la non punibilità per chi si “autodenuncia” per fatti precedenti il 2009.
L’abolizione della Tasi? Già prevista. Ma al suo posto arriverà la local tax – Renzi, infine, ha omesso di ricordare che l’abolizione dell’attuale imposta sulla prima casa – la Tasi, che lo scorso anno ha fruttato alle casse dello Stato un gettito di 3,5 miliardi – è prevista da tempo perché il governo intende sostituirla con la cosiddetta local tax. Un balzello unico destinato ad accorpare Imu, Tasi e diversi tributi minori imposti dalle amministrazioni locali. Con il solito rischio: che cambi solo il nome ma l’esborso resti lo stesso. Dulcis in fundo, non si può non ricordare che nemmeno un mese fa l’esecutivo ha dovuto rimandare ancora l’avvio della riforma del catasto perché dalle simulazioni fatte sulla base della nuova classificazione (basata sulla metratura e sulla collocazione geografica dello stabile) era emerso che le rendite catastali nelle grandi città sarebbero aumentate fino a sei volte, facendo quindi schizzare all’insù l’Imu.