Due episodi di segno opposto hanno mostrato ancora una volta come in Bahrain la giustizia sia un mero strumento nelle mani della famiglia reale al potere, da usare secondo la convenienza politica del momento.
Pochi giorni prima, il 9 luglio, in una risoluzione sul Bahrain il Parlamento europeo aveva sollecitato il rilascio di Rajab e si era congratulato per una precedente scarcerazione, quella di Ebrahim Sharif, che aveva beneficiato di un’altra grazia reale, il 19 giugno. L’ex segretario della Società per l’azione democratica nazionale (Wa’ad) stava scontando una condanna a cinque anni inflittagli nel 2011 per aver preso parte a manifestazioni pacifiche e aver denunciato le violazioni dei diritti umani.
Dopo aver raccolto il plauso del Parlamento europeo per il rilascio di Sharif ed essersene assicurato nei giorni successivi un altro per quello di Rajab, le autorità hanno proceduto ad arrestare nuovamente Sharif, prelevandolo dalla sua abitazione alle 2.30 del mattino del 12 luglio.
Il giorno dopo, Sharif è stato incriminato per “incitamento all’odio e al disprezzo verso il governo” e “incitamento a rovesciare il governo con la forza o con altri mezzi illegali”, ai sensi degli articoli 165 e 160 del codice penale del Bahrein.
Le accuse derivano dalle parole pronunciate da Sharif il 10 luglio nel corso di un’assemblea pubblica. In quel discorso non c’è traccia di “odio”, “forza” e “mezzi illegali”. Al contrario, Sharif aveva garantito l’impegno dell’opposizione politica a perseguire la nonviolenza e aveva sollecitato il governo a introdurre profonde riforme economiche per evitare la bancarotta.
Uscito Rajab, rientrato Sharif, le porte girevoli delle prigioni del Bahrain si sono nuovamente fermate, salvo essere manovrate in futuro per una nuova condanna allo stesso Rajab, a Zainab al-Khawaja o a uno dei pochi altri attivisti per i diritti umani che non è già in carcere.