Gli anni Novanta? È stato un periodo irripetibile, soprattutto per le band che da un momento all’altro si ritrovavano sulla copertina del Rolling Stone! Già questo era straordinario: vedere gente del posto che conoscevi, che all’improvviso si trova in prima linea con la musica che conta è veramente surreale”, raccontano i Counting Crows. Erano gli inizi degli anni Novanta quando la band californiana, con un sound che è l’alternativa allo stato depressivo andante tipico delle band grunge di Seattle, fa breccia tra un pubblico che non rientra nella cosiddetta “Generazione X”, che è alla costante ricerca di leggerezza ed è cresciuto con serie-tv come Beverly Hills 90210, Melrose Place e Friends.
Brani come Mr. Jones e Round here rendono i Counting Crows come uno dei gruppi simbolo di quegli anni e in Italia, come nel resto del mondo, il loro disco d’esordio August And Everything After ottiene un successo clamoroso. Per questo motivo, ogni volta che la band guidata da Adam Duritz torna a esibirsi dalle nostre parti c’è sempre grande attesa. Era trascorso quasi un decennio da quando misero piede in Italia l’ultima volta, poi nel novembre scorso si sono esibiti per due date, a Milano e a Padova. E ora, a distanza di pochi mesi, sono tornati nuovamente nel nostro paese per tre appuntamenti.
Ragazzi vi vedo in gran forma: come sta andando il vostro tour europeo?
Beh, sta andando davvero alla grande. Era da un po’ che non suonavamo nei festival e adesso stiamo ricominciando a farne diversi. I festival sono sempre molto divertenti, c’è tanta gente e abbiamo l’opportunità di ascoltare altri artisti. Siamo tornati all’Isola di Wight, al Pinkpop Festival in Olanda per la quinta volta. Abbiamo anche suonato al Concert at Sea, e poi siamo tornati in Irlanda dove non suonavamo da quasi 5 anni.
Siete tornati in Italia dopo solo pochi mesi. Cosa vi ha spinto a tornare così presto?
Torniamo in Italia in parte perché vogliamo continuare a costruire il nostro seguito e in parte anche per motivi egoistici perché, un po’ come a tutti, l’Italia ci piace moltissimo a partire dal cibo, la sua storia. È uno dei posti più belli al mondo, quando siamo qui sentiamo il bisogno di andarcene in giro e visitare musei, ammirare gli edifici, l’arte. E non è certo una cosa difficile: basta mettere il piede fuori dall’uscio ed è tutto a portata di mano.
Il vostro ultimo album si intitola Somewhere Under Wonderland. Cos’è questo paese delle meraviglie e in che senso ci siete sotto?
Il titolo si riferisce a un posto magico che potrebbe trovarsi a Los Angeles. Ma nel disco le canzoni non parlano esclusivamente delle mie esperienze, come accadeva in passato. In questo album ho cercato di parlare di altre questioni, altre tematiche.
E a tal proposito, ci sono questioni verso le quali siete particolarmente sensibili? Voi avete creato la Grey Bird Foundation. Di che cosa si occupa?
Il problema di queste organizzazioni è che spesso la gente si sente un po’ disorientata. Ce ne sono così tante e di molto grandi e a volte non si capisce cosa ci sia dietro e di cosa si occupino veramente e dove vanno a finire i soldi. Quindi l’idea di fondo di Grey Bird è quella di collaborare con piccole organizzazioni delle città in cui suoniamo. Prima di suonare in una città, ci organizziamo in anticipo e collaboriamo con piccole realtà locali in modo che possiamo fare qualcosa di concreto anche mentre siamo in tour. È una cosa buona che facciamo ormai da molti anni.
E passando invece alla scena musicale di oggi, in generale cosa pensate dell’industria musicale odierna? Quanto è diversa rispetto a quella in cui siete cresciuti?
La differenza principale sta nel fatto che negli anni 90 un gruppo andava in tournée per supportare l’album. Un musicista poteva effettivamente guadagnare vendendo album. Ma adesso le cose sono cambiate così tanto, con la rete, la musica gratis, che ormai si fanno dischi solo per poi andare in tour. Le cose si sono rovesciate, in un certo senso. A noi non dispiace, noi ci guadagniamo da vivere facendo concerti. Siamo un’ottima band dal vivo e adoriamo questa vita. Ma se dobbiamo parlare di differenze, la più grande è questa.
Qualche tempo fa, il sito TheVerge ha pubblicato le 41 pagine del contratto del 2011 (il Digital Audio/Video Distribution Agreement) che lega la Sony Music a Spotify, nel quale vengono dettagliate tutte le forme di pagamento. In pratica Spotify si comporta come una casa discografica fa con i propri artisti: concede anticipi per assicurarsi il catalogo. La Sony ha rilasciato una dichiarazione nella quale spiega che tutti i proventi derivati dalla distribuzione digitale vengono condivisi con i propri artisti: per voi Counting Crows, Spotify è fonte di guadagno o un ostacolo per la vostra attività?
Agli artisti arrivano veramente pochi soldi da queste piattaforme. È una questione complessa… da un certo punto di vista pensiamo che, sì, la nostra musica riesce a raggiungere un pubblico più vasto. Ma poi pensiamo che per fare un album ci vuole tanto tempo, tanta energia, tanti soldi e allora sarebbe più giusto che l’album venisse venduto. Quindi ci sono un po’ queste due facce della medaglia e capiamo entrambe le parti ma onestamente facciamo un po’ fatica a prendere posizione. Da parte nostra, cerchiamo sempre di supportare gli artisti, quindi preferiamo andare su iTunes o comunque pagare in qualche modo, per aiutare gli artisti. Certo, c’è anche da dire che uno può sentire una canzone su Spotify e se gli piace potrebbe comprare il cd. Ma la verità è che oggi, tanto per cambiare argomento, alla gente non interessa più l’album, come formato. Si parla solo di questa o quella canzone. In passato si dava più importanza all’opera di un artista dal punto di vista organico. Anche l’ordine delle canzoni contava. Ma ormai sono veramente in pochi a consumare la musica in quella maniera. Noi siamo praticamente dei dinosauri da questo punto di vista: non badiamo più di tanto alla canzone, al singolo successo. A noi interessa costruire l’album nella sua organicità. Come si faceva una volta.