Tamara Abu Ramadan ha 19 anni, studia giurisprudenza, ed è una delle tipiche storie di cui siamo a caccia qui a Gaza. Perché sta imparando a suonare il violino da youtube. La piccola Paganini che aggira l’assedio con le nuove tecnologie. Che resiste. Poi però è la prima ad ammetterlo. “Da youtube non si capisce niente”.
Difficile oggi essere giornalisti a Gaza. Ma non tanto, onestamente, perché Hamas ormai è più un regime che un governo – anche perché non è rimasto niente da governare, qui: il 70 percento dei palestinesi vive di aiuti umanitari. Vieni controllato passo passo, libero solo di scrivere dei crimini di Israele. Ma questo, in fondo, fa parte del mestiere. I giornalisti, quelli veri, non sono mai i benvenuti. E quindi no, non è difficile perché tutti hanno paura di incontrarti. Poi ti dicono: a che ora posso telefonarti? Che parliamo tranquilli.
No. Essere giornalisti a Gaza è difficile per un altro motivo. Perché ti chiedono di raccontare storie di tenacia. Di forza, di fermezza. Storie di palestinesi che “nonostante tutto”. Nonostante la guerra, la fame: ma loro stanno lì a suonare il violino. Il resto viene cestinato. Ti chiedono di raccontare il migliore caffè di Gaza. La scuola di surf, i ragazzi del parkour, i ragazzi, appunto, che imparano da youtube, che imparano l’inglese, il sushi, lo yoga, quelli che si colorano le case, il tizio che si è ricavato una piscina dalle macerie. I dinosauri del nuovo parco giochi. Stanno tutti a imbottirsi di Tramadol, la sera, un antidolorifico per cani che qui è usato come una specie di ecstasy, e che per un momento, ti fa dimenticare la tua vita del cazzo: ma tu devi raccontare quanto si divertono tra i brontosauri.
In nome dell’idea, al solito, che le storie tristi non vendono. Ma anche dell’idea, tutta palestinese, che esistere è resistere. Che l’unica cosa che conta è non andare via. Che basta questo: rimanere: a qualsiasi costo. E il resto verrà. Ma forse perché in guerra ci vivo, forse perché so che non finisce mai, in realtà, che il resto non viene mai, che posso tenere banco per ore, tutta ironia e energia, ma quando la mente torna ai barili esplosivi, alle teste incastonate tra le macerie, a quello che ho perso, in Siria, e che non riavrò mai più, precipito: nient’altro: ed è così Stanley Greene quando ti parla di Cecenia, è così Yuri Kozyrev quando ti parla di Iraq, è così qualsiasi giornalista di guerra, nessuno di noi è mai davvero tornato, stiamo tutti lì, in bilico: per sempre – forse per questo, dopo un po’, a te lo ammettono: “da youtube non si capisce niente”.
Perché non sono storie di resistenza, queste, ma di miseria. Di intelligenze, di vite sprecate. Di ferite che non guariscono.
Sono otto anni, ormai, che a Gaza non c’è più neppure l’acqua, solo acqua salata, acqua di mare: rimani appiccicaticcio tutto il giorno, tutti i giorni: per anni – ma quale surf? ma di cosa stiamo parlando? Qui non c’è nessuna vita. E soprattutto, nessuna resistenza. Perché tra Israele e Hamas, i palestinesi sono esausti. Completamente vuoti. Incontri questi ventenni che altrove starebbero nelle migliori università a scoprire cure contro il cancro, energie rinnovabili, domandi come va, e ti dicono: Bene, dai. Ora trovi quasi tutto, ti dicono. Anche la frutta. Perché la verità è che arriva la sera, qui, e ti accorgi che non hai discusso che di questo: di sopravvivenza. Di tunnel, di razzi. Di Hamas che controlla che non ti stappi una birra mentre guardi la partita in tv. Ma come potranno mai sfidare Israele, i mezzi sofisticati del suo dominio, intrappolati qui, senza un cinema, una libreria? Senza niente. Solo un po’ di frutta. Ma quale resistenza?
Gaza è allo stremo. Sono tutti in cerca di un visto per l’Europa. Tutti. Di una via di fuga.
Fuga da Israele e da Hamas. Da entrambi.
E quelli di noi che raccontano quanto è bello il mare, qui che ogni tanto Israele bombarda, e neppure più fa notizia, diventano complici di tutto questo.
Perché no, esistere non è resistere. Quando hai sei anni e tre guerre, come ti dicono qui i bambini, esistere è esistere e basta. E male.